Ospedali, perché non c’è un “camice europeo”

di Massimo Boccaletti

Un quesito insolito: i medici operanti nei 27 Paesi della Comunità Europea indossano lo stesso camice? Non parliamo, ovviamente, dal punto di vista estetico ma delle sue proprietà e caratteristiche. In via preliminare: il camice viene “europeisticamente” classificato come device, ossia dispositivo medico e quindi, come gli altri MD, uniformemente regolamentato? Alla luce delle molteplici ricadute pratiche (sanitarie, economico produttive e sociologiche) che sottendono tale strumento, un quesito, che a tutta prima, suonava banale, non lo appare più tanto.
Maria Sofia Rini, Odontoiatra Legale, docente di Igiene Applicata all’Università di Bologna, spiega in che modo si pone, in ambito europeo, un “capo di vestiario”, per molti versi fondamentale nella salvaguardia della salute ma anche, paradossalmente, assai poco considerato dagli stessi utenti, se è vero, come dicono ad esempio, i fabbricanti, che la scelta del camice viene, nella maggior parte dei casi, lasciata alla … segretaria o alla moglie (dipende!). Con la stessa attenzione – dicono proprio così- che riscuote di solito un paio di lacci. Nel definire e identificare DPI (Dispostivi Protezione Individuale) e DM (Dispositivi Medici), la normativa ha sostanzialmente escluso l’abbigliamento professionale sanitario, riservando attenzioni solo a guanti, occhiali protettivi ecc. Molti sanitari, in relazione alla crescente attenzione al rischio biologico , al microbioma e al microbiota, ritengono tuttavia che l’abbigliamento professionale sanitario sia un dispositivo atto a proteggersi dal rischio infettivo. Il camice “isola” obiettivamente, da quest’ultimo, ma non ha un potere antibatterico ad hoc. Pertanto la produzione, l’acquisto e la gestione non risultano regolamentati da norme specifiche come per ogni branca medica o attività sanitaria. A tutt’oggi non esiste una norma specifica di riferimento nazionale o europea, né linee guida con indicazioni e/o suggerimenti. I riferimenti internazionali spesso non omogenei, non fanno riferimento ad alcuna norma condivisa.
E oltre Europa?
Anche se funzionali, si parla solo e quasi sempre di fogge. L’OSHA negli Stati Uniti obbliga alla manica lunga e a camici accollati, in Germania sussiste l’obbligo di quella corta, come in quasi tutta l’Europa, ad eccezione di Italia, Croazia e Grecia e del ricorso a tessuti resistenti a lavaggi ad alte temperature. Nei paesi del Nord Europa sono proibite le casacche chirurgiche da sfilare dal capo (possibilità di infezioni). Sempre in Germania e nei paesi del Nord esistono norme specifiche di lavaggio e di manutenzione e/o di scelta del colore. Tutte regole loco-regionali, tuttavia, senza valenza scientifico/ normativa condivisa.
Allo stato attuale, fatte salve le eccezioni previste per i DPI di classe III, la produzione, la scelta e la manutenzione dell’abbigliamento sanitario “ad uso ordinario”non sono regolamentate da norme univoche europee. Se un domani diventasse ufficialmente dispositivo medico in quale contesto potrebbe inserirsi il riconoscimento condiviso?
Nel contesto dei DM, Dispositivo Medico di protezione dal rischio biologico o nei DPI, Dispositivi di Protezione Individuale di classe III, Relativamente ad alcune attività chirurgiche, anche ambulatoriali, verrebbe assimilato ad attrezzature o strumenti che già ora hanno il compito di salvaguardare la salute e la sicurezza della persona (D.LGS 475/92). Sono infatti già DPI (L 81/2008) “tutte le attrezzature destinate ad essere indossate e tenute dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciare la sua sicurezza e/o salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”.
Quale è il criterio discriminante?
E’ il cosiddetto “rischio crescente”. L’abbigliamento professionale sanitario ordinario, in virtù del “rischio minimo” cui è esposto, non è considerato device. Anche se, adeguatamente utilizzato e manutenuto, rappresenta pur sempre un valido mezzo di “contenimento del rischio”. La necessità di protezione viene ufficialmente riconosciuta ai dispositivi che rientrano nella categoria III, utilizzati in situazioni particolari, come i guanti in corso di procedure odontoiatriche. Vedi il DM 28 settembre 1990 sulle ”Norme per la protezione dal contagio professionale da HIV nelle strutture sanitarie e assistenziali pubbliche e private”.). Se l’abbigliamento professionale sanitario non è un device, è da temere una sottovalutazione del rischio a vantaggio di operazioni non di tutela, ma di marketing o di immagine?
Indubbiamente. Una prima conseguenza giuridica è che l’onere di rispondere dell’identificazione e della scelta della divisa più adeguata al tipo di rischio presente, ricade sul datore di lavoro, sull’utilizzatore stesso e su chi identifica la tipologia di rischio.
Interessati alla definizione della normativa sono oltre ai pazienti, i medici. Quale è il loro atteggiamento?
I professionisti oggi non sembrano considerare a sufficienza il problema. Appaiono più preoccupati dei costi che di rispondere delle scelte valutative del rischio. Una più rigida regolamentazione condurrebbe al timore, non infondato, di improponibili e non sempre giustificati aumenti. La nascente cultura della sicurezza e delle attenzioni alla gestione igienica delle attività sanitarie a tutela di lavoratori e pazienti, consiglia d’altro canto il ricorso ad adeguato abbigliamento in vista di una regolamentazione comune. Regolamentazione, che, tuttavia, dovrà tener conto anche di fattori vestibilità e confort del lavoratore in ambito sanitario (funzionalità e praticità d’uso).
Uniformare proprietà e caratteristiche dell’abbigliamento professionale in ambito sanitario è sufficiente a contrastare il rischio infettivo di cui la recente pandemia da CoViD-19 ci ha reso più consapevoli? rappresenta una protezione sufficiente?
No, ma è un primo passo. Molto dipenderà dalle condotte che i professionisti adotteranno nell’utilizzo dell’abbigliamento professionale Nelle circostanze attuali in cui la pandemia ha “unificato” le condotte da tenere per tenere testa al coronavirus, lei ritiene che le cose cambieranno?. Purtroppo le attuali circostanze hanno determinato il ricorso a condotte non sempre funzionali ed univoche o a soluzioni efficaci, pratiche e condivisibili. Diverse soluzioni proposte non sono praticabili nella routine di tutti i giorni e/o in un’attività clinica prolungata. Gestire il rischio infettivo anche attraverso un abbigliamento professionale idoneo è una necessità non nuova. Oggi la paura e la volontà di contrastare il dilagare del virus ha implementato risoluzioni non sempre efficaci, funzionali e condivisibili. Unificare condotte e mezzi sarebbe opportuno, ma la questione, per ora, rimane aperta.

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