Chiamami hamburger. E sarò la tua verdura

di Marta Fusaro

Il Parlamento europeo ha respinto le richieste di proibire l’uso della definizione hamburger o burger per prodotti alimentari simili nell’aspetto e consistenza alla carne macinata, ma di origine vegetale. Tutto resta come prima, anche se per molti osservatori il braccio di ferro tra interessi contrapposti è ancora una partita aperta. Il nome degli alimenti è spesso oggetto di diatribe anche giudiziarie. Il Parmigiano reggiano, ad esempio, ha sempre difeso il suo nome contro gli imitatori che commercializzano formaggi che ne richiamano l’aspetto ma non certo la qualità e ne scopiazzano il nome (il “parmesan” diffuso nelle Americhe). Diverso è invece il caso nel quale si difende la definizione di un alimento rispetto ad altri dichiaratamente diversi ma che ne richiamano l’origine. Ad esempio: il latte. È prodotto in tutto il mondo, ha accompagnato la storia dell’umanità, e fino a pochi anni fa indicava in commercio quasi solo un alimento di origine animale. Poi, per qualche tempo, sono apparsi sugli scaffali dei supermercati il latte di soia, il latte di riso…e cioè alimenti che richiamano nell’aspetto il latte animale ma sono di esclusiva origine vegetale. Non sono mai stati dei veri concorrenti del latte animale perché rivolti a consumatori che per scelta etica, intolleranza, dieta, oppure solo per questioni di gusto, avrebbero consumato comunque quel prodotto e non il latte. Però questa “contesa” gli allevatori, e comunque i difensori del latte tradizionale, in Europa l’hanno vinta. Anche se non l’hanno condotta direttamente. A fare causa a un’industria di prodotti vegani è stata infatti un’associazione tedesca che si occupa di casi di concorrenza sleale. E la Corte di Giustizia dell’Unione europea tre anni fa ha stabilito che “la denominazione latte e le denominazioni riservate unicamente ai prodotti lattiero‑caseari non possono essere legittimamente impiegate per designare un prodotto puramente vegetale”. Sono fatte salve – anche se di origine vegetale – quelle denominazioni diventate tradizionali, come “il latte di mandorle”.La sentenza della Corte di Giustizia non vale solo per il latte, ma ha stabilito, in linea di principio, che i prodotti vegetali non possono essere commercializzati neanche con denominazioni come “crema di latte o panna” o “yogurt” o “formaggio” e “burro”. Nei giorni scorsi invece il Parlamento europeo si è trovato a decidere, nell’ambito della riforma della Politica agricola comune, se debba continuare ad essere lecito definire hamburger (o più semplicemente burger) anche quelle polpette similari prodotte da vegetali, o se questa definizione si possa utilizzare solo per i prodotti di origine animale. Hamburger -nella sua accezione entrata nel linguaggio comune – indica una polpetta di carne macinata schiacciata, a forma tonda. E spesso indica direttamente il panino imbottito con questa polpetta. Ma la definizione di hamburger viene utilizzata in commercio anche per prodotti molto simili nell’aspetto ma di origine vegetale. Dopo un dibattito acceso, e quattro emendamenti, il Parlamento europeo ha respinto la richiesta di riservare il nome di hamburger a prodotti animali. Si tratta di un’indicazione, e non vincola i Paesi dell’Unione. La Francia, del resto, da due anni ha già proibito di usare termini come bistecca, polpetta o scaloppina per prodotti senza carne (e le multe per chi contravviene sono elevate, da 300mila euro in su). Naturalmente, proprio perché la pronuncia del Parlamento europeo non è vincolante, la diatriba è destinata a continuare. A Bruxelles gli ambientalisti e vegani, che hanno sostenuto come hamburger non debba essere un nome esclusivo per la carne, hanno avuto un alleato inaspettato nelle multinazionali alimentari che stanno riposizionando il loro interesse sul mercato puntando su prodotti vegetali, considerato come questi siano in crescita costante nelle vendite. Multinazionali che trovano ascolto e appoggio in componenti trasversali del Parlamento europeo. Contro questo schieramento, la Copa Cogeca, la lobby europea degli allevatori. Sembra del resto un argomentare debole quello delle associazioni di categoria quando sostengono che la definizione “burger” possa generare confusione nel consumatore. Se il prodotto è di origine vegetale viene solitamente indicato in modo chiaro nella confezione. Il Parlamento europeo, poi, non si è espresso in modo diverso da quanto già tracciato dalla stessa Corte di Giustizia che pure ha “condannato” il latte di soia a cambiare nome. Infatti pochi mesi prima della sentenza del latte, la Corte si espresse definendo corretta la denominazione “Burger di soia” per le polpette di soia, così come lecite le definizioni di “affettato vegetale” o di “ragù vegetale” per prodotti senza carne. La sentenza al riguardo allora rimarcò che il nome scelto non era “ingannevole” per il consumatore. La differenza nelle decisioni ha un senso. Si è distinto tra materia prima e preparazione. Latte, burro, yogurt sono materie prime. Burger no. È un’elaborazione, quindi una ricetta. Ci sono almeno due diversi tipi di burger vegetali: quelli che assomigliano nell’aspetto alla carne, ma hanno un sapore proprio; e quelli che imitano la carne in tutto, a cominciare dal sapore per arrivare alla sensazione del “sanguinare” durante la cottura. Questi sono i preferiti di chi ha il gusto legato ai burger di carne ma che ha deciso – ad esempio – di diventare vegetariano. Il gusto che imita la carne è provocato da un lievito proteico, la legemoglobina di soia, che viene estratta dalla radice della soia, o – in alternativa -che può essere prodotta geneticamente modificata.

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