Il coronavirus divide l’Europa

di Fabio Morabito

La crisi che l’Europa sta attraversando non è solo la crisi del coronavirus. E non è solo la crisi dell’economia, per le conseguenze che ci saranno e che già ci sono. È la crisi, anche, dell’Unione europea che ha appena perso la Gran Bretagna, e avrebbe dovuto dare una prova di esistenza in vita – nei suoi valori, ma anche nella sua capacità di essere gruppo unito e non frammentato e litigioso – proprio per recuperare non solo la missione che gli hanno affidato i tanto evocati Fondatori ma più prosaicamente la sua forza politica nel mondo, la sua centralità storica.

Giovedì 26 marzo era in calendario il più difficile Consiglio europeo degli ultimi tempi. Questo vertice dei leader dei 27 Paesi dell’Unione, tenuto causa pandemia in videoconferenza, aveva all’ordine del giorno le scelte comuni per affrontare le conseguenze devastanti sull’economia causate della pandemia del coronavirus. Sul tavolo c’era già una proposta, di iniziativa italiana e sostenuta da altri otto Paesi (tra cui Spagna e Francia), indirizzata al presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, in cui si chiede uno “strumento di debito comune emesso da una istituzione dell’Unione”. Spiega la lettera che vi sono valide ragioni per fare questa richiesta: lo choc che si sta affrontando non è responsabilità di nessun Paese – si sottolinea – mentre le conseguenze negative già gravano su tutti.

Lo strumento che si vorrebbe sono una versione diversa dagli eurobond di cui si è spesso parlato come strumenti strutturali. I titoli a cui si pensa sono stati definiti – in questo caso – coronabond. Non soldi a fondo perduto, ma un prestito garantito da tutti. “L’Italia ha sempre pagato i suoi debiti” rimarca il primo ministro italiano Giuseppe Conte il 31 marzo, in un’intervista alla tv tedesca Ard: “Vorrei ricordare che questo meccanismo, le obbligazioni in euro, non significa che i cittadini tedeschi dovranno pagare anche solo un euro di debito italiano. Significa solo che agiremo insieme per ottenere migliori condizioni economiche, di cui tutti beneficiano”.

I Paesi del Nord, con in testa i Paesi Bassi del premier Mark Rutte, si oppongono a questa linea. Senza esporsi, secondo il suo stile di sempre, la cancelliera Angela Merkel, mette a disposizione le condizioni del tanto discusso (in Italia) Mes, Meccanismo europeo di stabilità (chiamato anche Fondo Salva-Stati), quello che doveva essere rinnovato nelle sue regole (manca la firma finale) e che comunque riguarda solo i Paesi che hanno aderito alla moneta unica, cioè l’euro.

Lo scontro è tra i Paesi che chiedono i coronabond e quello che è stato definito “il fronte del Nord”, i Paesi con le economie più ricche. Le obbligazioni che vengono invocate non sarebbero a interesse zero ma certo con un tasso basso e a lunghissima scadenza. In campo politico c’è una divisione anche tra alleati storici: Belgio e Lussemburgo sostengono la proposta italiana, comprendendo che è in ballo la sopravvivenza dell’Unione europea, i Paesi Bassi di Rutte sono il primo “falco”.

Già nei giorni precedenti alla vigilia del Consiglio europeo del 26 marzo, mentre il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri appariva più dialogante, Conte si era irrigidito. A indirizzarlo verso una posizione dura sarebbero stati in due. Il primo è Luigi Di Maio, ministro degli Esteri che è ancora – nonostante il ruolo di guida sia passato a Vito Crimi- il parlamentare più rappresentativo nel Movimento Cinque Stelle. Di Maio ha chiesto al Premier di non accettare compromessi sul Fondo Salva-Stati, e soprattutto di non farsi ricattare (la firma dell’intesa rinnovata era stata rinviata a inizio di quest’anno, e sarà rinviata ancora). In discussione sono le imposizioni alle quali il Paese che chiede un aiuto dovrebbe sottostare. Prima del vertice Conte si è poi certamente consultato con Mario Draghi, che è stato Presidente della Bce (la Banca centrale europea) fino a ottobre scorso, e ora è libero – ma autorevolissimo- cittadino. Draghi il 25 marzo aveva firmato un articolo sul Financial Times in cui indicava la strada per uscire dalla crisi: spendere. Non curarsi del debito pubblico, ma aumentarlo per pagare il debito privato, per impedire il fallimento delle imprese. Con lo Stato che dovrà garantire i finanziamenti delle banche, per consentire liquidità alla capacità produttiva. “Stiamo affrontando una guerra, dobbiamo mobilitarci di conseguenza” è la tesi di Draghi, che ricorda come le guerre vengono finanziate dal debito pubblico. E aggiunge: “Bisogna proteggere i cittadini dalla perdita di posti di lavoro”.

Draghi sul Financial Times indica la strada ma non il veicolo con il quale percorrerla. Non parla di eurobond o coronabond. Poi c’è quello che può aver detto a Conte. Che alla vigilia del Consiglio dichiara di vedere i coronabond come l’unica opzione. Il drammatico Consiglio europeo si chiude con una situazione di compromesso, un rinvio alla seconda settimana di aprile, in attesa di una proposta della Commissione europea, un “Piano Ue per la ripresa”. Al ministero dell’Economia, intanto, fanno i conti. Da indiscrezioni da noi raccolte si ipotizza una discesa del Pil a oltre l’11%. Un disastro, con una coda lunga negli anni a venire. Solo il turismo, una risorsa cancellata in questi giorni, vale il dieci per cento del nostro Pil (alla Spagna va addirittura peggio).

Senza un bond europeo, che può avere un tasso d’interesse minimo, l’Italia dovrà mettere sul mercato titoli nazionali di Stato che saranno gravati inevitabilmente da interessi più alti. A meno che non si trovino soluzioni diverse, come bond di solidarietà, che però non potranno coprire l’intero fabbisogno, anche perché bisognerà comunque finanziare il debito “normale”. I tassi d’interessi sul debito sono già sui sessanta miliardi di euro l’anno: soldi che non sono spesi, come servirebbe, su sanità, istruzione, università, ricerca, interventi sul territorio, ma di fatto sprecati.

Appena due giorni dopo il tempestoso Consiglio Ue la tedesca Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, definirà i coronabond “uno slogan”. Dichiara infatti all’agenzia Dpa: “La parola coronabond è solo uno slogan, dietro ad essa c’è la questione più grande delle garanzie. E in questo le riserve della Germania e di altri Paesi sono giustificate”. Conte replica a tono, contestando di fatto alla politica tedesca l’infelicità della sua uscita: “Il compito della proposta non è rimesso alla presidente della Commissione”. L’incidente c’è, von der Leyen fa un passo indietro: la presidente – viene precisato dalla Commissione – “non esclude nessuna opzione nei limiti dei trattati”. C’è la possibilità di sanare la ferita nei dieci giorni che mancano alla “proposta Ue”. Sarà un compromesso? Ma per un’Unione europea franata nei suoi equilibri, in una situazione di recessione così drammatica, non è questo il tempo dei compromessi.

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