Tav si o no, la crisi di governo dentro il tunnel

di Antonella Blanc
A leggere i giornali italiani più schierati non c’è posto per il bianco e il nero, sono in disaccordo su tutto, perfino se sia il Tav o la Tav. Essendo l’acronimo di treno alta velocità, i sostenitori che sia di genere maschile lo chiamano il Tav. Ma anche i sostenitori de “la” Tav hanno le loro buone ragioni, infatti si parla di una linea ferroviaria (la TorinoLione), quindi il genere femminile non è uno scempio linguistico.
Poi ci sono gli argomenti importanti. L’argomento forte dei favorevoli è che costruirla significa restare agganciati all’Europa, evitare l’isolazionismo, non perdere il segmento dell’Europa delle reti. Chi è contrario sostiene che si rischia di compromettere un gioiello della natura italiana, la Val di Susa, con conseguenze devastanti sul piano idrogeologico. Anche se poi nei talk show e sui giornali gli elementi su cui si dibatte sono altri.
Vediamone alcuni, tra i pro e i contro. I lavori sono già avanti, tanto vale continuare. In caso di rinuncia dovremmo pagare una penale e perderemo i finanziamenti. E’ un’opera inutile perché c’è una linea esistente che si può potenziare. Servirà a trasferire merci, ma non è così conveniente perché già il trasporto su gomma non è intenso come un tempo. Argomenti che ormai sono quasi luoghi comuni, trattati con l’approssimazione di una conversazione da bar.
Fatto è che la Tav ha fatto tremare il governo. Lo ha ammesso Stefano Buffagni, del Movimento 5 stelle, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, c che aveva parlato di “crisi già aperta” tre i due alleati nell’esecutivo. Secondo Buffagni sulla stampa erano uscite finora spesso notizie di crisi del governo, ma che fino a quel momento invece si era proceduti in sostanziale accordo. Solo ora, con la Tav, l’intesa avrebbe cominciato a scricchiolare. Il programma di governo che le due forze politiche vincenti alle elezioni (Lega e Cinque Stelle) hanno firmato, parla di ripensare la Tav, ma non di rinunciarci né di mantenere il progetto tale e quale. Che poi è la sintesi faticosa, forse l’unica possibile, tra due posizioni che più distanti non si può: i Cinque Stelle, contrari senza se e senza ma; la Lega, favorevole in modo altrettanto deciso.
L’escamotage trovato è quasi un gioco di parole. Un rinvio, un procastinare in stile Brexit, per non far esplodere la contraddizione di un governo tra due forze che hanno progetti diversi, e spesso contrari, sulla politica da dare al Paese, e cioè facendo partire l’iter come era previsto ma senza vincoli dei bandi di gara per sei mesi. Il tempo di presentare “dichiarazioni di interesse”. Lo ha spiegato così il Primo ministro Giuseppe Conte parlando con Il Fatto Quotidiano, dopo essersi accordato con la Telt, la società appaltante: “Mi ha molto soddisfatto la risposta di Telt, che conferma come si possano avviare le dichiarazioni di interesse senza far partire i bandi di gara per alcuni mesi, senza il rischio di penali o di altri oneri per lo Stato e senza perdere gli eventuali finanziamenti europei”. Aggiunge Conte: ora viene il difficile, convincere Francia e Commissione Ue “delle nostre buone ragioni illustrate dall’analisi costi-benefici, che indica una perdita di 7-8 miliardi per tutti e tre, non solo per l’Italia”.
L’analisi costi-benefici di cui parla Conte è un dossier preparato da una Commissione di tecnici per il governo, e dalla quale emerge la non-convenienza dell’opera. Si è polemizzato perfino sull’attendibilità dei tecnici che hanno lavorato a questo dossier, ma quello che conta è poi anche quali sono i criteri di valutazione. L’accise sui carburanti, infatti, è un introito allo Stato che fa pensare che sia conveniente incentivare il trasporto su gomma. Meglio i Tir dei treni, quindi, se si guarda solo a quanto finisce in cassa all’erario. Ma poi naturalmente questo non sembra un criterio molto convincente, al quale si può controbattere con il maggior inquinamento dei camion. Ma le ragioni ambientali forti sono quelle legate all’equilibrio idrogeologico che si teme verrà sconvolto.
Per Luigi Di Maio, vice premier ma anche capo politico dei Cinque Stelle, il problema è legato anche al programma del suo Movimento, e al logoramento di aver dovuto accettare già una serie di compromessi rispetto alle promesse elettorali, principalmente sulla protesta di realtà locali (come l’Ilva di Taranto e la sua riconversione, che non c’è stata). Compromessi inevitabili, perché i Cinque Stelle non governano da soli. Come uscirne, considerando la fermezza dell’alleato Matteo Salvini a non rinunciare a questa grande opera?
Per ora si manda la palla in tribuna, usando un’efficace immagine del calcio. Ma una resa dei conti sarà necessaria. Una via di uscita ha voluta suggerirla Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per la Lega. Ed è quella di lasciar decidere al voto del Parlamento. Che significa: la Tav si farà, perché i Cinque Stelle si troverebbero in minoranza. Sembra l’uovo di Colombo. Una soluzione (apparentemente) geniale, perché salverebbe la faccia a Di Maio rispetto ai suoi elettori. Ma in realtà non potrà essere altrimenti: per bloccare la Tav ci vuole una legge di modifica di trattati internazionali (in questo caso con la Francia) e questa deve per forza passare dal voto del Parlamento.
I Cinque Stelle potrebbero ancora puntare i piedi, e chiedere la fiducia. Ma fino a tanto, probabilmente, non si arriverà.

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