Come in guerra. Il modello Draghi sui vaccini

di Fabio Morabito

Quando Mario Draghi ha di fatto bloccato l’esportazione di uno stock di vaccini in Australia dalla ditta (l’anglo-svedese AstraZeneca) che li aveva prodotti si può essere avuta all’estero la sgradevole sensazione di un sovranismo all’europea, che stava violando un principio di solidarietà di fronte a un problema di diffusione globale (il covid-19 è una pandemia e non una epidemia proprio perché diffusa ovunque).

Non è così, e il premier australiano Scott Morrison ha dimostrato di capirlo con una dichiarazione pubblica rilassata, anche se probabilmente in contemporanea avrà avuto una reazione privata di altro tenore con la ditta fornitrice. “Comprendo l’Italia – ha detto infatti – ha trecento morti ogni giorno”. Mentre in Australia – anche per ragioni geografiche, e di densità abitativa – il problema non è altrettanto drammatico: le vittime sono novecento, ma non in tre giorni: dall’inizio della pandemia.

La determinazione di Draghi è conseguenza di un semplice ragionamento: l’Unione europea ha la priorità su quelle dosi che si sarebbero volute dirottare in Australia, perché Bruxelles ha firmato un contratto precedente che va onorato. A dirlo non è stato un qualsiasi altro capo di Stato o di governo dell’Unione, neanche i sovranisti per autocertificazione dell’Europa dell’Est.

È vero che – del lotto conteso – la gran parte delle dosi vaccinali è destinata all’Italia. Dosi peraltro confezionate – è la messa in fiala – nello stabilimento di Anagni (Frosinone) ed è quindi giusto che a parlare per primo fosse il maggior interessato, cioè il primo ministro italiano. Piuttosto di questa vicenda può sorprendere il clamore che ha suscitato, nonostante la decisione di Draghi sia conseguente rispetto a una sua dichiarazione di poco precedente: “Le aziende che non rispettano gli impegni presi non dovrebbero essere scusate”. Draghi ha avuto il sostegno dei leader europei. Il primo sarebbe stato il presidente francese Emmanuel Macron, e non solo perché Parigi è in sofferenza sulla distribuzione dei vaccini. Anche probabilmente per sua convinzione e carattere. Ma l’Unione europea tutta ha sostenuto questa linea determinata, mentre dalla Gran Bretagna il premier Boris Johnson si è lamentato per una decisione che colpirebbe non solo la cooperazione internazionale ma sarebbe addirittura di ostacolo alla battaglia contro il covid. L’Australia – va ricordato per inciso – fa parte del Commonwealth, l’organizzazione intergovernativa formata – tranne un paio d’eccezioni – solo da Stati che hanno fatto parte dell’impero britannico. L’Italia ha già avuto un suo modello di approccio alla pandemia, che è stato oggetto di elogi e critiche anche internazionali, con il governo guidato da Giuseppe Conte. Un’idea efficace è stata quella di indicare con un diverso colore, con annesse diverse restrizioni, le regioni in base alla diffusione della pandemia. Draghi ha mantenuto questa impostazione – che era maturata nel tempo – ma ha messo un generale dell’esercito, Francesco Paolo Figliuolo, a Commissario straordinario all’emergenza. Per sostituire quindi l’uomo scelto da Conte, Domenico Arcuri, non è stata aspettata neanche la fine del suo mandato, che era abbastanza ravvicinata: il 31 marzo. Ma non c’è tempo da perdere, e anche questo segnale è stato dato.

Draghi ha subito indicato come modello la Gran Bretagna, che in Europa è più avanti – per diversi motivi – nel vaccinare la popolazione. Ed ha guardato anche a come ha pianificato la campagna vaccinale Washington, che ha coinvolto l’esercito e la protezione civile e perfino le grandi aziende. Affidando il timone a un generale è stata dato subito da Draghi il senso di un’impostazione militare. Saranno poi i numeri – ma il raffronto dovrà essere fatto con gli altri grandi Paesi dell’Unione europea, e non in assoluto – che indicheranno se è stata data l’impostazione giusta.

Nel frattempo, l’otto marzo la fredda contabilità delle vittime del Covid-19 ha toccato i cinque zeri, i centomila morti solo in Italia. Di questi tempi, l’anno scorso, si interveniva con il lockdown generale: tutti chiusi in casa, ammesse solo le uscite giustificate. Che non erano poche, perché poi tante categorie di lavoratori erano esentate. E si poteva ovviamente fare la spesa, comprare il giornale, portare a passeggio il cane.Ma questo giro di vite, energico ma con smagliature (non c’era ancora l’obbligo della bocca e del naso coperti, perché le mascherine erano quasi introvabili in commercio) ha frenato la progressiva diffusione del contagio, fermandola prima del tracollo nazionale delle strutture sanitarie, ma quando già intere regioni erano in emergenza assoluta.

Il Sud era stato quasi risparmiato, ed è arrivata l’estate con il numero dei decessi giornalieri scesi anche a una sola cifra, ma mai azzerato. Dal governo il messaggio ricorrente era “non potremo permetterci una seconda ondata”, con la convinzione che si stava facendo tutto il possibile per evitarla. Durante l’estate, alcuni medici esperti si sono poi avventurati nel sostenere che il covid-19 era diventato innocuo. Di questi tempi, l’anno scorso, la gente cantava dai balconi, e lo slogan era “andrà tutto bene”. Oltre centomila morti dopo, con centinaia di migliaia di posti di lavoro persi e decine di migliaia di attività collassate, la capacità di reazione è diventata rassegnazione. Per fortuna non rivolta sociale. C’è da ricostruire, molto, e sarà difficile. È una guerra, lo sostengono in tanti. Il termine di paragone, sulla stampa, per i centomila morti è stata la Campagna di Russia.

Per questo la distribuzione dei vaccini e la gestione dell’emergenza ha bisogno di una strategia militare. Dove ci sono solo vite da salvare.

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