L’Europa Malata

Di Fabio Morabito

Neanche due anni fa, l’Organizzazione mondiale della Sanità (l’Oms) ipotizzò lo scenario di una malattia X, “causata da un patogeno sconosciuto, capace di provocare una pandemia”. Una malattia nuova, che quindi si sarebbe diffusa senza che fossero disponibili cure collaudate per contrastarla. E meno che mai vaccini. Una malattia devastante, in grado di contaminare senza confini – come è facile nel mondo globalizzato, dove ci si sposta facilmente da un continente all’altro – e quindi capace di causare vittime in tutto il mondo. L’allarme dell’Oms è rimasto inascoltato, anche dall’Europa che pure – per cultura, per storia, per politica – avrebbe più di tutti dovuto dargli credito. Nell’Europa che si dichiara attenta al cambiamento climatico, alle scelte di sviluppo sostenibile, alla ricerca scientifica, il mondo che cambia non può essere solo una sintesi di mercati che si fronteggiano tentando di dominarsi, ignorando come la crescita economica non potrà più essere a scapito di tutto il resto.

Eppure, con il coronavirus, l’Unione europea si è mostrata più che impreparata. Spiazzata. Disorientata. Si discute molto se le scelte del governo italiano siano state corrette o sbagliate, e se ne può discutere a lungo. I voli bloccati dalla Cina anziché il controllo medico dei passeggeri. L’inseguita esposizione mediatica del premier Giuseppe Conte, impropria se l’intenzione era quella di rassicurare. La polemica tra Stato e Regioni. L’accusa all’ospedale di Codogno nel quale si è propagato il virus. Gli scontri sopra le righe tra maggioranza ed opposizione. Anche se poi una vocazione nazionale all’autocritica e a considerarsi meno bravi degli altri, questa volta ha corrisposto un riconoscimento all’estero sul nostro senso di responsabilità. “Finora il governo di Giuseppe Conte ha adottato misure severe e allo stesso tempo prudenti – scrive il quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung -. Isolare le persone nei luoghi più colpiti dal virus, preparare le caserme per l’accoglienza dei contagiati e cancellare molti eventi pubblici sono decisioni proporzionate a questa emergenza”.

Un’opinione, anche questa, su un difficile giudizio riguardo una difficile situazione. Ma se su tutto questo si può discutere, è più facile essere d’accordo su una cosa: l’Unione europea si è data tardi, e solo dopo una sequenza di settimane difficili, la prospettiva di una strategia comune, di una collaborazione organizzata. Ora, sia pure sotto quella etichetta di effetto ma spesso solo etichetta, “task force”, Bruxelles sembra aver capito che tutte le emergenze globali si contrastano meglio con la solidarietà fra Stati. E già il presidente francese Emmanuel Macron, il 27 febbraio a Napoli, in occasione del vertice intergovernativo Italia- Francia, ha rassicurato di non voler drammatizzare la situazione, rispondendo con un secco “no” alla domanda se volesse chiudere i confini tra i due Paesi. Con la consapevolezza, probabilmente, che quello che sta succedendo in Italia solo per un caso fortuito non sta succedendo in Francia. Nel frattempo, alcuni episodi – comprensibili – hanno turbato i rapporti tra i Paesi dell’Unione. Forse gli italiani si sono sentiti trattati come “untori”, ma questa sensazione non tiene conto dell’insidia di una malattia che ha una provenienza, un contagio di partenza, e dove quindi il rifiuto e la paura sono le conseguenze emotive di quello che stabilisce un protocollo medico. La diffidenza sulla provenienza nasce sullo sviluppo dei cosiddetti “focolai”, che hanno visto la cittadina lombarda di Codogno diventare “zona rossa”, blindata in entrata e in uscita da diciotto posti di blocco. C’è una rivincita del Mezzogiorno d’Italia, nelle prime settimane di diffusione della malattia risparmiato dal contagio (ma chissà fino a quando). Una rivincita sulle regioni più ricche del Paese, Lombardia e Veneto, all’avanguardia dell’economia ma in questi giorni punite dalla malattia, e dalla sua conseguenza amplificata che è la paura, o meglio l’angoscia, il sentimento che si prova su ciò che non si può controllare.

Nascono nuovi confini, il territorio diventa un fatto statistico, e se Washington invita a non farsi prendere dal panico, ma a fare provviste, il panico è di fatto suggerito. Le cronache di assalto ai supermercati e ai gel disinfettanti o alle mascherine sono il tunnel emotivo, più forte della razionalità, la certezza della propria fragilità di fronte a ciò che non si conosce e non si sa controllare. Non è più la Cina, dove pure è cominciato tutto, il teatro di questo virus, incarnazione delle insicurezze del nuovo millennio. Il teatro è il mondo, e l’Europa ha fatto bene a capire che non si tratta di un problema solo italiano. Anche se l’Italia – a tutt’oggi – è l’unico Paese occidentale tra i sei più colpiti, tutti asiatici e – nelle prime settimane della diffusione del contagio – tutti dell’Estremo Oriente. Circoscrivere un virus significa per forza alzare dei confini. Cinque anni fa ci fu la grande crisi dei migranti, che si sta riproponendo ora al confine della Grecia, dopo che la Turchia ha dichiarato di non voler più fermare i siriani in fuga verso l’Europa. Di fatto Ankara chiede soldi all’Europa, e l’Europa dimentica che affidare alla Turchia l’impermeabilità dei nostri confini non può essere una soluzione. Si tratta di decine di migliaia (per ora) di siriani, che hanno il diritto di ottenere asilo politico perché in fuga da una guerra.Una guerra che l’Occidente non è stata capace di fermare.

La crisi sanitaria sembra aver convinto l’Europa – che almeno in questo non ha interessi contrapposti dei singoli Paesi, ma la consapevolezza di un problema collettivo – di quanto sia necessario un senso di responsabilità comune. È messo in crisi uno dei pilastri dell’Unione, quello della libera circolazione delle persone (e non solo dei beni), ed è messo alla prova un sistema sanitario apprezzato nel mondo ma che potrebbe non essere all’altezza delle necessità. Che i nuovi confini dell’emergenza sanitaria e della quarantena non diventino confini della differenza e dell’esclusione è il messaggio che l’Europa, in ritardo ma finalmente, sta provando a dare. Sperando che possa diventare un’etica europea per tutte le prove che ci attendono, e non solo la contingenza di un’angoscia collettiva.

 

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