Londra declassa l’ambasciatore dell’Unione europea

di Monica Frida

È una polemica aspra e imprevista. Ma il premier britannico Boris Johnson si è impuntato, e ha tolto la piena immunità diplomatica al rappresentante dell’Unione europea a Londra. Si tratta di un diplomatico portoghese di 63 anni, si chiama João Vale de Almeida, era già stato ambasciatore europeo negli Stati Uniti, ed è stato indicato dall’Unione europea per rappresentarla in Gran Bretagna, alla guida di uno staff di 25 persone. Secondo Londra però non ha diritto alla piena immunità, perché non rappresenta uno Stato ma un’Unione, sia pure di 27 Paesi, sia pure la stessa Unione di cui ha fatto parte il Regno Unito per mezzo secolo. Unione che, nell’interpretazione del governo conservatore al potere in Gran Bretagna, è una semplice organizzazione internazionale, sia pure autorevole. Come le Nazioni Unite, come la Nato. Dove i rappresentanti hanno dei diritti, magari sono onorati da protocolli e cerimoniali, ma non da i pieni privilegi riconosciuti agli ambasciatori di altri Paesi.

Il primo ministro britannico Boris Johnson

Bruxelles ha reagito con energia. Se Josep Borrell, il politico spagnolo a cui è stato affidato l’incarico di Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, è stato glaciale e ha espresso ufficialmente “serie preoccupazioni” protestando per iscritto con il governo britannico, il francese Michel Barnier, che ha guidato la delegazione dei negoziatori di Bruxelles per la Brexit, è stato minaccioso: Londra stia “molto attenta”, ha avvertito. L’Unione europea è già rappresentata nel mondo da 142 delegazioni in altrettanti Paesi, e per tutte c’è il pieno status diplomatico, quello riconosciuto ai singoli Stati dalla Convenzione di Vienna. In punta di diritto, chi ha ragione? La questione può essere controversa. Se è vero che l’Unione europea ha un Parlamento, una bandiera comune, leggi comuni, e addirittura anche una moneta condivisa (adottata però solo da 19 Paesi membri), si potrebbe obiettare che i Paesi che ne fanno parte beneficerebbero di una doppia rappresentanza. Oppure – come affermano, e sembra una provocazione, i più integralisti sostenitori della Brexit – sono invece i Paesi membri che ne fanno parte che non dovrebbero avere dignità di Stato riconosciuto. Bruxelles da parte sua può ricordare come questa forma giuridica sia stata accettata da Londra fin quando era dentro l’Unione. Ora, solo perché si è passati dall’altra parte, cioè fuori dalla Ue, con che faccia si sostiene un’interpretazione diversa? “Lo status dell’Unione europea nelle relazioni esterne e il suo successivo status diplomatico è ampiamente riconosciuto da Paesi e organizzazioni internazionali di tutto il mondo” ha spiegato Peter Stano, che è portavoce della Commissione europea. Aggiungendo di aspettarsi che anche Londra si adegui “senza indugio”. Naturalmente, è sottintesa un’ulteriore preoccupazione di Bruxelles: se Londra continua a impuntarsi, altri Paesi potrebbero ripensarci e togliere lo status diplomatico ai rappresentanti dell’Unione.

Si è aperto a questo punto un negoziato, con Londra che lascia uno spiraglio dopo aver sbattuto la porta. Il governo conservatore ha fatto riferimento a trattative con Bruxelles sulle “disposizioni che riguardano la delegazione dell’Unione nel Regno Unito”. Poi il ministero britannico degli Esteri ha rassicurato sul fatto che saranno conferiti alla rappresentanza Ue immunità e privilegi necessari a consentire “di svolgere efficacemente il proprio lavoro nel Regno Unito”. Ma non si parla di equiparazione ai diplomatici degli altri Paesi. Londra sembra riferirsi alle immunità diplomatiche delle organizzazioni internazionali, considerate un gradino più sotto a quelle dei singoli Stati. Di mezzo non c’è solo la liturgia della presentazione delle credenziali alla Regina Elisabetta.

Nella stessa Gran Bretagna l’impuntatura del governo ha lasciato perplessi. Tobias Ellwood, autorevole parlamentare conservatore, si è indignato: “Siamo migliori di così”. E la stampa britannica ha ricordato che il padre del premier, Stanley Johnson (che nel frattempo ha chiesto la doppia cittadinanza, anche francese “per poter restare europeo”), è stato a lungo funzionario della Commissione Ue. Ed è l’Europa che ha pagato le tasse scolastiche e universitarie al ambasciatore.

In questo braccio di ferro Bruxelles potrebbe togliere lo status diplomatico a Tim Barrow, che rappresenta il Regno Unito presso l’Unione, ma non sarebbe una grande soddisfazione. Probabile che Barrow abbia già protestato con il suo governo: del resto l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue per lui già significa molte informazioni condivise in meno. La rottura di Londra però non è un fatto inedito, a differenza di quello che è sembrato dai resoconti di stampa: nel 2018, gli Stati Uniti, allora con Donald Trump presidente, hanno fatto qualcosa di simile, declassando la rappresentanza diplomatica della Ue, per poi ripensarci l’anno dopo.

Diversi anni fa, poi, (c’era il laburista Tony Blair alla guida del governo) la stessa Gran Bretagna aveva – in nome della riduzione dei costi – pensato ad accorpare a Roma l’ambasciata presso la Santa Sede con quella italiana, riducendola a un ufficio. La residenza dell’ambasciatore, di proprietà britannica, sarebbe stata venduta.

Ma il Vaticano si fece sentire. Senza un’ambasciata separata la Santa Sede avrebbe potuto interrompere le relazioni diplomatiche. Relazioni che in quei tempi furono preziose nella trattativa per la liberazione di alcuni militari della Royal Navy che nell’aprile del 2007 furono arrestati con l’accusa di aver “sconfinato” nelle acque iraniane nella zona dello Shatt el Arab, il canale d’acqua che segna il confine tra quel Paese e l’Iraq. Lo ricorda sul Guardian Denis MacShane, che con Blair fu per tre anni ministro per l’Europa. È un errore frequente quello di sottovalutare il ruolo del Vaticano nelle relazioni diplomatiche. Ed era nota all’epoca anche l’intenzione di Blair di convertirsi alla fede cattolica, e ai solerti funzionari del Tesoro – impegnati nella ricerca di spese da tagliare – venne chiesto di accantonare il progetto. Ora c’è l’impuntatura di Boris Johnson. Una “decisione infantile” secondo MacShane, che lascia intendere che però potrebbe essere ispirata dal potente Segretario di Stato, Dominic Raab.

Fatto è che tutto questo avviene poche settimane dopo la firma dell’intesa per l’uscita dall’Unione, quando ancora il Parlamento europeo (lo farà a marzo) deve ancora approvarla.

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