Il malessere dell’Europa

Le ambiguità, disomogeneità e disfunzioni

di Roberto Nigido
Tensioni e veti incrociati in seno al Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea e divergenze con il Parlamento Europeo, come ha spiegato Fabio Morabito nel numero 68 di Più Europei, hanno reso finora impossibile tradurre in testi legislativi definitivi le storiche decisioni del Consiglio Europeo del luglio scorso che hanno creato il Recovery Fund e approvato nuove risorse proprie. Si è riproposto così con assoluta evidenza la difficoltà di far convivere sotto uno stesso tetto i Paesi dell’Europa Occidentale, tra i quali quelli fondatori del progetto europeo, e i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale, che sono stati tutti soggetti a lungo a regimi comunisti; alcuni di questi Stati sono ancora portatori di sensibilità, tradizioni e valori rivelatisi inconciliabili con quelli dei Paesi dell’Europa Occidentale. E’ la conferma che, se è possibile mediare tra interessi diversi (come si è costantemente fatto nella Comunità a Sei e poi a Quindici), è impossibile mediare tra valori diversi.
Il negoziato sul Recovery Fund in seno al Consiglio si era arenato sulla formula proposta dalla Commissione per condizionare l’erogazione dei finanziamenti europei al rispetto, da parte dei Paesi beneficiari, dello stato di diritto: condizionamento non strettamente dovuto sul piano giuridico ai sensi del Trattato, ma certamente utile su quello politico, se inserito in uno strumento finanziario di nuova istituzione e nel suo regolamento di attuazione, per cercare di ricondurre al rispetto delle regole i Paesi riottosi a tener fede agli impegni sottoscritti. La formula proposta dalla Commissione è stata trovata eccessivamente invadente da Polonia e Ungheria. I due Paesi erano stati messi sotto accusa dalla Commissione, ai sensi dell’articolo 7 del Trattato, per violazione degli obblighi previsti dall’articolo 2 in materia di rispetto dello stato di diritto, in particolare per quanto riguarda l’ indipendenza della magistratura: violazioni ritenute dalla Commissione gravi soprattutto nel caso dell’ Ungheria.
L’ articolo 7 del Trattato prevede la possibilità di privare lo Stato in questione del diritto di voto con decisione unanime del Consiglio, con esclusione dal voto dello Stato sotto accusa. Poiché però gli Stati in questione sono due, che si spalleggiano l’ uno con l’ altro nella votazione che riguarda uno di loro, l’ articolo 7 nel caso in questione è inattuabile. Questo spiega perché la Commissione, sostenuta dal Parlamento Europeo, abbia ripiegato sul regolamento finanziario almeno per l’ attuazione del Recovery Fund: era peraltro un’ arma spuntata in partenza perché’, a monte del regolamento finanziario, il Nuovo Quadro Finanziario 2021- 2027 e la decisione sulla modifica delle risorse proprie devono essere approvati all’ unanimità dai Paesi membri e ratificata da tutti i Parlamenti nazionali. Il ricatto da parte dei due Paesi era ben prevedibile. In questa situazione, per superare lo stallo sul Recovery Fund la presidenza tedesca ha elaborato una formula di compromesso che è stata approvata dal Consiglio Europeo del 10 e 11 dicembre. Il compromesso è basato su una dichiarazione interpretativa del Consiglio Europeo, di dubbia legittimità soprattutto per quanto riguarda le prerogative della Commissione: preclude di fatto a lungo l’applicabilità del regolamento e ne esclude comunque anche sul piano giuridico l’ applicazione per due anni, cioè fino a dopo le prossime elezioni politiche in Ungheria.
Si è trattato di un totale cedimento della presidenza al ricatto di Polonia e Ungheria: cedimento non sorprendente alla luce della deriva in atto nel Partito Popolare Europeo, del quale la Signora Merkel è esponente molto autorevole, verso posizioni ambigue e comunque tolleranti nei confronti dei regimi autoritari, come è stato provato dall’ astensione del PPE sulla recentissima risoluzione del Parlamento Europeo di condanna del regime egiziano a seguito delle sue ripetute e gravi violazioni dei diritti umani. Sui testi relativi al Recovery Fund è in corso attualmente il negoziato tra Consiglio e Parlamento: è dubbio che quest’ ultimo possa approvarli nella versione attuale; e’ da prevedere comunque che daranno luogo a prolungate vertenze davanti alla Corte di Giustizia. Il più coraggioso e innovativo piano di sviluppo economico, sociale e tecnologico lanciato dall’Unione Europea da molti anni è così ostaggio della disomogeneità tra le due parti dell’Europa, vecchia e nuova, come amava definirle George W. Bush Jr.
Il problema del rischio di una disomogeneità crescente in una Comunità avviata ad aumentare di numero si era posto sin dalla domanda di adesione della Gran Bretagna, dell’Irlanda e della Danimarca. Era stato risolto allora con una formula saggia di origine francese, che si è rivelata efficace ed è stata successivamente ripetuta: ampliamento solo se preceduto da approfondimento.
Così i negoziati per il primo ampliamento furono avviati solo dopo il completamento dei regolamenti di mercato per quei prodotti agricoli, inclusi quelli ittici, che interessavano soprattutto la Francia e l’approvazione di un originale sistema di risorse proprie della Comunità Europea, che era fortemente richiesto soprattutto dall’Italia. La formula ha funzionato così bene che la Gran Bretagna, costituzionalmente disomogenea per storia, tradizioni e interessi, ma non per valori, rispetto ai Paesi del nucleo originario (come ha confermato la quasi cinquantennale storia della sua presenza nell’Unione), ha finito per andarsene, appena le nuove disposizioni in materia di recesso previste dal Trattato di Lisbona gliene hanno offerto la possibilità giuridica. Politica agricola, pesca e contributo al bilancio comune hanno avuto un ruolo rilevante nella decisione di Londra.
Dopo l’ampliamento alla Grecia nel 1980, alla Spagna e al Portogallo nel 1985, a Svezia, Finlandia e Austria nel 1995, il binomio ampliamento/approfondimento si pose nuovamente con evidenza solo alla fine degli anni ‘ 90 in previsione della adesione di un numero consistente di Paesi dell’Europa Centrale e Orientale molto disomogenei rispetto agli allora quindici Membri presenti nell’Unione. Ci si preoccupò innanzitutto di migliorare le procedure decisionali modificando la ponderazione dei voti per le decisioni a maggioranza qualificata e riducendo il numero dei casi di decisioni all’unanimità.
L’unanimità rimane comunque la regola per le decisioni di maggior rilievo politico (come quella in questione e quelle in materia di fiscalità e di politica estera) anche nel trattato ora vigente, che si è così rivelato incapace di gestire una Unione ora di 27 membri. L’ampliamento al primo gruppo di Paesi dell’Europa Centrale e Orientale fu deciso nell’aprile 2003, prima dell’approvazione delle pur insufficienti riforme previste dal Trattato firmato a Roma nell’ottobre 2004 ma entrato in vigore dopo la revisione operata a Lisbona nel 2007. L’ esigenza di far precedere l’ ampliamento dall’ approfondimento non fu dunque rispettata in quella occasione. Perché tanta fretta nell’ampliamento a Est? La spiegazione prevalente che viene data non convince: l’adesione all’Unione Europea sarebbe stata indispensabile per ancorare questi Paesi all’Occidente, dopo la fine del Patto di Varsavia e l’abbandono da parte loro del sistema comunista, porli al riparo da possibili rigurgiti russi e evitare derive anti-democratiche o autoritarie. Chi ha vissuto nei Paesi dell’Europa Centrale e Orientale negli anni ’90 ricorda che la preoccupazione primaria di quei Paesi era l’adesione alla NATO, che Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca ottennero rapidamente entro il secolo scorso. L’adesione all’Unione Europea fu richiesta contestualmente ma avvenne dopo: non era considerata questione vitale, come invece quella alla NATO. Ovviamente era da quei Paesi desiderata soprattutto per i benefici finanziari che ne sarebbero derivati; ma certamente non per prendere ordini da Bruxelles dopo aver preso ordini per tanti anni da Mosca. Comunque le derive antidemocratiche e autoritarie si sono prodotte ugualmente almeno in alcuni di quei Paesi.
L’adesione all’Unione Europea fu il risultato di una azione molteplice svolta da alcuni Paesi Membri e non Membri per ragioni di vario ordine. Era auspicata dalla Gran Bretagna per diluire ulteriormente l’Unione e trovare nuovi alleati per rallentarne il passo: va ricordato a titolo di esempio l’ opera esercitata da Londra e Varsavia per ostacolare e condizionare al ribasso l’ approvazione del Trattato di Lisbona. E’ stata voluta però soprattutto dalla Germania per ingrandire il giardino di casa sulla scia della sua storica politica di espansione ad EST. Infine ha avuto una influenza rilevante l’ interesse degli Stati Uniti di scaricare sugli europei una parte del costo economico della fine della guerra fredda. Le disomogeneità e le loro conseguenze negative sul funzionamento dell’Unione erano prevedibili anche allora, ma si decise di non tenerne conto nella speranza che si sarebbero ridotte col tempo. Si sarebbe potuto razionalmente fare altrimenti? Con il senno di poi si può ritenere di sì: mediante accordi di associazione rafforzati, ma chi li propose allora non fu ascoltato.
La conclusione da trarre è che dovremo rassegnarci a convivere per molto tempo nell’Unione Europea con alcuni partner che preferiremmo meno difformi da noi ( è da immaginare che tedeschi, olandesi e scandinavi pensino lo stesso degli italiani); e sperare nello sviluppo di integrazioni differenziate o a centri concentrici, facendo comunque attenzione ai rischi per l’Italia di rimanere esclusa dai nuclei maggiormente integrati, come è stato fino all’ultimo momento con l’EURO e come era già avvenuto con Schengen nel 1985. L’Italia nel 1998 non aveva i requisiti formali e soprattutto quelli sostanziali per aderire a una zona monetaria unica composta da democrazie liberali moderne e sviluppate. Difatti la Germania e soprattutto i Paesi Bassi furono a lungo restii a dare il loro accordo. Lo diedero quando si convinsero che solo l’adesione all’EURO avrebbe salvato l’Italia dal fallimento finanziario: fallimento che avrebbe avuto conseguenze pesanti anche sul resto dell’Europa comunitaria. E si fidarono delle promesse di “ cambio di passo “ date in buona fede dagli statisti illuminati che governavano allora a Roma. L’Italia non rispettava infatti il requisito formale, previsto dal Trattato di Maastricht, della permanenza della lira per almeno due anni nel Sistema Monetario Europeo senza gravi tensioni sul cambio. Ma soprattutto non aveva attuato le riforme strutturali che l’Europa le chiedeva da molti anni – e che continua a chiedere – per vivere in armonia con gli altri membri in un’area comune (un “condominio”, come amava definirlo Ciampi) di civiltà giuridica e di moderno ordine economico e sociale: storiche conquiste di grande valore anche etico dei Paesi dell’Europa Occidentale. Giustizia, sistema carcerario, burocrazia, fiscalità, percezione delle imposte, chiarezza della legislazione, qualità della spesa e controllo dei suoi meccanismi rimangono in Italia fortemente disomogenei rispetto agli altri Paesi dell’Europa Occidentale. L’ ammissione dell’ Italia all’EURO nel 1998 fu il frutto di una decisione politica, come quella di ammettere i Paesi dell’Est all’Unione Europea nel 2003.
Non solo disomogeneità ma anche incongruenze rallentano l’integrazione: vale la pena citarne una tra le tante, perché è stata oggetto di prolungate polemiche al momento dei negoziati per l’approvazione del Recovery Fund: l’armonizzazione fiscale come condizione essenziale per il corretto funzionamento, in un mercato integrato, della libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi, inclusa la libertà di stabilimento delle imprese. Se ne era discusso a lungo durante il negoziato che portò nel 1986 all’approvazione del trattato che creò il Mercato Unico. Si tentò allora inutilmente di convincere i Paesi europei che ospitano paradisi fiscali (essenzialmente Paesi Bassi, Irlanda e Lussemburgo) ad accettare il voto a maggioranza anche per l’armonizzazione fiscale, analogamente a quanto fu allora opportunamente deciso per l’armonizzazione delle norme relative agli altri settori oggetto del mercato unico: mercato unico che senza il voto a maggioranza non avrebbe visto la luce. L’opposizione di quei Paesi fu irremovibile. L’alternativa fu tra rinunciare al mercato unico o accettarlo privo di un elemento pur essenziale delle condizioni di concorrenza. Si scelse la seconda soluzione nella speranza che col tempo si sarebbe riusciti a concordare una accettabile armonizzazione della fiscalità a livello europeo. Questo non è avvenuto: con la conseguenza che, dopo quasi trenta anni dalla creazione del mercato interno, la mancanza di una sufficiente armonizzazione fiscale continua a ostacolarne il corretto funzionamento e a generare tensioni tra gli Stati Membri.
Roberto Nigido

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