Brexit di Natale

di Fabio Morabito
Il nuovo anno per l’Unione europea comincia all’insegna di un altro fatto senza precedenti, oltre alla pandemia e all’emergenza economica che ne è stata la conseguenza. È l’uscita, ora operativa, della Gran Bretagna dall’Unione europea. Non era mai successo che uno Stato chiedesse di uscire dalla Ue. Lo ha fatto il Regno Unito che è sempre stato un inquilino “sui generis”, spesso in polemica. Capace di ottenere nel tempo una serie di privilegi che hanno in qualche modo fatto scuola, come gli sconti fiscali sui contributi dovuti all’Unione europea che sono diventati la pretesa fissa ad esempio dei Paesi Bassi. E che ottenne per prima Margaret Thatcher.
Si definisce spesso un cambiamento come “epocale” per dare spessore alla sua importanza. Ma epocale questa volta è appropriato, perché il confronto tra l’ingresso del Regno Unito e la sua uscita è appunto il confronto tra due epoche. Allora l’Unione si chiamava Cee, Comunità economica europea, e la Gran Bretagna era l’unica esclusa tra le grandi democrazie europee (la dittatura spagnola di Francisco Franco terminò solo nel 1975). La differenza sostanziale con oggi, quando siamo a tre quarti di secolo dalla fine del secondo conflitto mondiale, è che a guidare la Gran Bretagna – quando entrò nella Cee – c’era un premier che la guerra l’aveva fatta. Conservatore come Boris Johnson, diverso da lui non solo per le origini sociali ma per un fatto inevitabile, quello di appartenere a una generazione diversa.
Andiamo indietro nel tempo fino al 1 gennaio 1973, il giorno dell’ingresso di Londra nella Cee, che ovviamente è stato preceduto da negoziati e incontri. Primo ministro era Edward Heath, il figlio di un muratore, ufficiale d’artiglieria nella Seconda guerra mondiale, tra gli sbarcati in Normandia. Conosceva la la tragedia di un’Europa divisa. Questi sono i sentimenti. Anche se poi sono decisive le forti ragioni dell’economia. E c’era certo un interesse economico pressante: il Mercato comune era un’occasione, e infatti poi diede sviluppo e ricchezza alla Gran Bretagna che all’epoca invece stava facendo i conti con una crescente disoccupazione. Londra però già dal 1961 aveva cominciato a bussare alla porta della Comunità economica europea, quando primo ministro era Harold Macmillan, anche lui conservatore, anche lui reduce di guerra (combatté sul fronte occidentale nel primo conflitto mondiale, e rimase ferito), già consapevole del declino dell’età imperiale e delle opportunità che il primo nucleo dell’Unione europea avrebbe potuto offrire al Regno Unito. Dei sei Paesi che facevano parte di quella che allora si chiamava Comunità economica europea, cinque erano favorevoli all’ingresso di Londra: Germania, Italia, e i tre “piccoli” del Benelux (Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo). Contraria era la Francia. Il presidente Charles De Gaulle lo disse pubblicamente: la Gran Bretagna no, non doveva entrare. Era irritato per quella pretesa britannica di un ingresso “su misura”, che si era già rivelato ai primi negoziati. «È possibile – si limitò a riconoscere De Gaulle – che un giorno l’Inghilterra riesca a trasformarsi abbastanza per far parte della Comunità europea senza limitazioni, senza riserve e senza fare distinguo. In quel caso i Sei le apriranno le porte e la Francia non opporrà obiezioni, benché, evidentemente, la semplice partecipazione della Gran Bretagna alla Comunità ne cambierebbe considerevolmente la natura e la dimensione ».
Dopo le dimissioni di De Gaulle, che poi un anno dopo morì, nel 1969 subentrò all’Eliseo Georges Pompidou, nel segno politico della continuità. Però con lui si apre quella porta che con De Gaulle era rimasta chiusa, e Londra entrò così nella Comunità economica europea. Da allora è sempre stata una voce poco omogenea della Comunità poi diventata Unione, dove è restata per 47 anni. Da Primo ministro, nell’ottobre del 1990, Margaret Thatcher disse in un discorso alla Camera, riferendosi alle parole del francese Jacques Delors: «Qualche giorno fa il presidente della Commissione, il signor Delors, ha detto a una conferenza stampa che voleva che il Parlamento europeo fosse il corpo democratico della comunità, che la Commissione fosse l’esecutivo e che il Consiglio dei ministri fosse il Senato. No. No. No». Sullo sfondo c’era già la discussione sulla moneta unica, quello che sarà l’euro. La Gran Bretagna non aderì, mantenendo la sterlina. La “Brexit”, così come è chiamata in tutte le lingue l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, è stata sancita lo scorso anno (il 31 gennaio), ma ha origine dal referendum datato 23 giugno 2016: il 52% dei votanti si dichiarò favorevole all’uscita dalla Ue.
Non era un referendum vincolante, e nacque per un azzardo. Primo ministro era il conservatore David Cameron, che alle elezioni precedenti vinse proprio promettendo che si sarebbe effettuato una consultazione popolare sulla permanenza o meno nell’Unione europea. Per battere i laburisti, con il sistema elettorale dei collegi uninominali, bisognava non farsi erodere voti dal partito per l’Indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage, che propugnava appunto la Brexit. Per questo Cameron, favorevole alla permanenza nella Ue, scelse l’azzardo di promettere il referendum. Una volta rieletto, utilizzò la promessa elettorale per trattare condizioni ancora più favorevoli con Bruxelles, andando alle urne certo convinto che a questo punto i britannici avrebbero votato per restare, e lui fece campagna elettorale per questa scelta. Come si sa non andò così. Cameron si dovette dimettere, e sparì dalla scena politica. La Gran Bretagna si lacerò in una scelta di cui ora si cominciavano a prevedere le conseguenze, e la politica, messa alle strette delle sue divisioni e contraddizioni, diede una cattiva prova di sé. Al punto che si ipotizzò perfino un altro referendum, considerando che i sondaggi indicavano un orientamento cambiato. Dopo Cameron si sono avvicendati alla guida del governo Theresa May, costretta a dimettersi perché l’accordo da lei trattato con Bruxelles non ebbe il sostegno del Parlamento, e Boris Johnson che si presentò come l’uomo della Brexit dura. Pronto (a parole) a “nessun accordo”, arrivò come i giocatori d’azzardo a firmare l’intesa alla vigilia di questo Natale. Nel frattempo, le cinquecento pagine sottoscritte da Theresa May sono diventate oltre milleduecento (più altre ottocento di allegati).
Ma in questo ultimo anno si è trattato il “come” questo addio sarà disciplinato. C’è stato un accordo tra le parti – tra la Gran Bretagna che se ne va e i negoziatori dell’Unione guidati dal francese Michel Barnier – che dovrà ancora essere ratificato dal Parlamento europeo, ma che se non altro scongiura quel “nessun accordo” che avrebbe avuto conseguenze probabilmente drammatiche soprattutto alla luce di quanto è avvenuto in questi giorni, dove le frontiere al collasso per l’incerto esito della trattativa si aggiungono all’emergenza della nuova variante del covid-19. Cosa accadrà nei prossimi anni per la Gran Bretagna – se sarà recessione o prosperità – dipende anche da come sarà governata questa situazione dagli esecutivi che si succederanno a Londra. C’è l’accordo, ma molti dossier in effetti sono ancora aperti.
Lo “splendido isolamento” dell’isola che era impero rischia di diventare solitudine, al di là dell’entusiasmo esibito dal premier Boris Johnson (“abbiamo riconquistato la nostra sovranità”). La sua politica è aggressiva, e subito dopo Natale ha già fatto un primo accordo con la Turchia per il libero scambio. Nei suoi piani, Johnson ne vorrebbe fare altri quaranta con altrettanti Paesi. La parola d’ordine è libero mercato che potrebbe aver conseguenze poco virtuose, come comprimere i diritti dei lavoratori.
Nel complesso della trattativa, anche se si è parlato molto degli accordi sulla pesca (che però sono una briciola del Pil britannico), sono proprio le condizioni del libero mercato quelle che muoveranno il bilancio.
Niente dazi sulle merci ma dogana sì. La cancelliera Angela Merkel l’aveva detto chiaramente che il nodo era il rischio della concorrenza sleale, ma le controversie – ha ottenuto Johnson – saranno sottoposte ad arbitrati indipendenti. Non finisce qui ma tutti si sono dichiarati vincitori. Il che in politica avviene spesso quando si perde.

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