La pandemia arricchisce i miliardari del web

di Teresa Forte
Il rapporto di Oxfam di questo settembre (titolo: “Potere, profitti e pandemia”) rivela che l’epidemia di coronavirus che ha messo in ginocchio enormi settori dell’economia ha arricchito chi è già ricco, e cioè le multinazionali, a cominciare dai giganti del web e della distribuzione (Google, Apple, Facebook e Amazon) ma anche le grandi case farmaceutiche. Oxfam (significa Oxford Committee for Famine Relief, che è il nome originale in inglese) è una Confederazione di organizzazioni no-profit nel mondo che si dedicano a contrastare la povertà. Tra le sue attività anche quella di monitorare i fattori di diseguaglianza. Secondo Oxfam questa nuova ricchezza concentrata su pochi non verrà distribuita nella cosiddetta “economia reale” ma andrà a ingigantire i guadagni dei multimiliardari e azionisti delle aziende della generazione web.
In due mesi la ricchezza di 25 miliardari è aumentata mediamente di dieci miliardi di dollari a testa; intanto si sono persi nel semestre, a livello mondiale, 400 milioni di posti di lavoro e minacciano di chiudere 430 milioni di piccole aziende. Oxfam propone ai governi di favorire le imprese “socialmente responsabili”: tra le proposte, una tassazione sugli extra-profitti sulle imprese che fatturano più di mezzo miliardo l’anno. Per contrastare queste distorsioni, che oltretutto arricchiscono aziende che sono nella quasi totalità con sede negli Stati Uniti, Bruxelles è impegnata in battaglie anche legali. Le multinazionali del web in Europa si “rifugiano” in Paesi con leggi fiscali agevolate, (come l’Irlanda). Si calcola che questo abbia permesso loro di risparmiare in cinque anni quasi cinquanta miliardi di euro dovuti al fisco di tutta Europa.
La Commissione europea ha proposto una “tassa comunitaria” per intercettare questi profitti nei Paesi dove vengono prodotti, e non nei Paesi dove hanno la sede europea. Gli Stati membri della Ue, nel frattempo, si stanno destreggiando con leggi proprie. Il motivo delle difficoltà di Bruxelles è nella resistenza di quei Paesi che hanno dato ospitalità di sede legale alle multinazionali. La danese Margrethe Vestager, Commissaria europea alla Concorrenza, da anni combatte la battaglia delle tasse “risparmiate” dalle multinazionali della tecnologia e del web. La Corte di Giustizia europea ha però dato recentemente ragione, dopo un contenzioso di quattro anni, alla Apple che aveva trovato riparo fiscale in Irlanda. Non dovrà quindi pagare i 14,3 miliardi di euro pretesi da Bruxelles. Il ministro delle Finanze irlandese Paschal Donohoe, ha sostenuto (naturalmente) che non esiste un “trattamento di favore” per la multinazionale dei computer. Donohoe ora è anche presidente dell’Eurogruppo, cioè il coordinatore dei ministri delle Finanze dei Paesi dell’Eurozona (cioè quelli che hanno aderito alla moneta unica, l’euro) e questo non aiuta.
L’Italia non aveva aspettato l’esito del ricorso della Apple per muoversi. Dopo una legge che si è fermata da sé perché non vennero promulgati i decreti attuativi (governo Paolo Gentiloni), con l’attuale esecutivo la digital tax è in vigore dal primo gennaio scorso. Prevede un’aliquota unica al 3% sui ricavi dei “giganti” con oltre 750 milioni di fatturato di cui almeno 5,5 milioni prodotti dall’online nell’anno solare. Con molte deroghe: sono escluse banche, giornali, tv, operatori telefonici, siti aziendali… Insomma, si vogliono colpire i giganti del web, che drenano risorse finanziarie e pubblicità evitando (non evadendo, perché i sistemi usati sarebbero legali, come la decisione della Corte di Giustizia europea sostiene) di pagare le imposte. L’approccio è minimo, l’aliquota è favorevole (anche se ha provocato già le prime risentite reazioni dei colossi di internet), ma questa legge permetterebbe di moltiplicare per dieci le entrate (secondo un report di Mediobanca, 64 milioni di euro nel 2018) per il nostro fisco. A differenza della legge francese che è simile, quella italiana prevede un meccanismo di annullamento automatico in caso di legge comunitaria, che sostituirebbe in questa materia quella nazionale.
La soluzione per l’Europa è quella di una tassazione molto più incisiva, e che valga anche per i colossi della distribuzione come Amazon il cui successo sta piegando le attività di vendita al dettaglio, mettendo a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro.

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