Braccio di ferro a colpi di euro

di Fabio Morabito

“Se venisse aperta una procedura d’infrazione contro l’Italia sarebbe un evidente attacco politico”. Lo sostiene Matteo Salvini, leader della Lega (che ha stravinto in Italia le elezioni europee), e viceprimo ministro – con dicastero al Viminale – nel governo con i Cinque Stelle guidato da Giuseppe Conte. Salvini parte da una figura retorica (“mi rifiuto di prendere in considerazione”) per concludere che Bruxelles sarebbe prevenuta nei confronti del governo italiano, un sentimento definito “un’antipatia politica”. In realtà Bruxelles per ora minaccia, fa pressioni, ma non vuole uno scontro finale con l’Italia, anche se il governo attualmente alla guida del nostro Paese non è certo amato. Ma un conto è provare “antipatia”, un conto è essere prevenuti. Bruxelles semplicemente diffida del programma politico italiano, dal Reddito di cittadinanza a Quota cento per le pensioni, fino alla “tassa piatta”, sbandierata promessa di questi giorni, perché tutte queste misure implicano debito ma non il necessario rilancio e nuova occupazione. Se Roma impostasse il suo programma diversamente, investendo di più in opere pubbliche e in tutto ciò che genera Pil (prodotto interno lordo) sarebbe più facile chiedere sforamenti del deficit. La crescita è alimentata dagli investimenti, non da un aumento del debito chiesto a prescindere. Se in attesa della “flat tax”, quella tassa piatta che è stata la bandiera della campagna elettorale del centrodestra (in realtà più di Forza Italia che della Lega) si prendessero in anticipo quelle misure che ne sarebbero la conseguenza, ecco che Bruxelles potrebbe dare un qualche via libera. Naturalmente questo sarebbe molto impopolare, e Palazzo Chigi fa bene a non preannunciare quello che in effetti rappresenta un aumento della pressione fiscale. Ma anche se resta sotto traccia, è già in agenda come bilanciamento della flat tax il taglio agli sgravi contributivi alle denunce dei redditi: 54 miliardi il valore complessivo alla voce “deducibilità”. Poi bisogna mettere in conto anche le conseguenze di questa semplificazione: perché le voci deducibili servono anche a scoraggiare il “nero”, piaga endemica del nostro sistema fiscale. Il fatto è che la tassa piatta, più il reddito di cittadinanza, più “quota cento” come somma di età e anni di contribuzione per accedere alla pensione, sono interventi che potranno pure essere popolari, ma non sono sostenibili dalla nostra economia sofferente, soprattutto se vengono proposti insieme. Se non si fa chiarezza su questo equivoco sarà velleitario qualsiasi tentativo di trovare comprensione a Bruxelles. E i primi Paesi a pretendere che l’Italia si attenga alle regole del rigore sono proprio i presunti alleati “sovranisti”.

In questo Matteo Salvini continua ad essere primattore in Italia, spostando anche abilmente l’attenzione sui migranti, ma in Europa è drammaticamente solo. Gli altri mal di pancia del nostro esecutivo, rispetto ad esempio a un più benevolo trattamento verso il deficit francese, non tengono conto che Parigi, che pur avendo un debito pubblico pesante (e viene accusata, con qualche ragione, di “trattamento privilegiato”), paga modesti interessi sui prestiti, segno di riconosciuta affidabilità. Roma, invece, è strozzata dagli interessi pesanti che deve pagare ogni anno, e non riesce a fare retromarcia sul debito pubblico. Nell’ultimo decennio, la media annua di interessi maturati sul nostro debito supera i 70 miliardi di euro. Soldi bruciati, che non producono nulla come incentivo o investimento, ma che lo Stato deve pagare. E il calo della fiducia è inversamente proporzionale alla crescita dei tassi d’interesse. Alto debito, bassa crescita e elevati interessi: una miscela destabilizzante che giustifica la rigidità prudente di Bruxelles. Prudente perché l’Italia non è solo uno dei Paesi fondatori dell’Europa unita, ma tuttora – con tutti i limiti della nostra economia – uno dei pilastri dell’Unione. Il suo fallimento (politico, prima che economico) è uno scenario da incubo per Bruxelles, che quindi cercherà sempre di non tirare la corda e – sia pure senza dare l’impressione di piegarsi a concessioni – di trovare una soluzione sostenibile. La Commissione che ha minacciato la procedura d’infrazione dovrà lasciare il passo perché in scadenza.

L’avvicendamento non avviene immediatamente dopo le elezioni ma è in calendario in autunno. Difficilmente però i nuovi Commissari saranno più indulgenti. Sia Movimento 5 Stelle che Lega sono fuori dalla maggioranza europea, e questo non aiuta, anche se poi la severità attuale è una conseguenza delle misure economiche proposte dal governo Conte, non dalla sua antipatia. Che non ci sia la volontà di rompere sarà dimostrato dal fatto che l’attuale Commissione probabilmente concederà una dilazione. Concederà di aspettare almeno fino al 10 ottobre, quando è in calendario il prossimo vertice dei ministri dell’Economia a Lussemburgo, dopo quello del 9 luglio prossimo, per fortuna in programma troppo presto. Una dilazione sulla quale sta trattando Giuseppe Conte in questi giorni, cercando di convincere i partner europei che i risultati di deficit per l’anno in corso saranno meno pesanti del previsto, nonostante il brusco raffreddamento della crescita, che sfiora la “zona recessione”. Un ottimismo che è il tratto distintivo dell’approccio di Conte in Europa, ma che non è del tutto fuori luogo, e infatti negli ultimi giorni di giugno è stato confortato dal torpore dei mercati. Non è fuori luogo anche perché per rimettersi in careggiata potrebbe bastare per quest’anno una “manovrina”. Il difficile saranno gli obblighi dell’anno prossimo quando si dovranno trovare risorse per 23 miliardi, necessarie per congelare l’aumento dell’Iva che i due alleati di governo hanno sempre garantito di riuscire a scongiurare. “Trattativa complicata ma approccio costruttivo, sono fiducioso” sono le dichiarazioni al miele di Conte, che ha portato la trattativa in Giappone, dove tutti gli attori in campo si sono ritrovati per il G-20 in programma ad Osaka.

Naturalmente, si tratta di disinnescare un primo ordigno, non di conquistare campo libero. E non è solo un errore di prospettiva, probabilmente è una necessità di Palazzo Chigi ragionare in termini brevi e non strategici, per la debolezza dello stesso esecutivo e della singolare alleanza che gli ha dato vita. “La trattativa con l’Europa non è più difficile che in passato” ha rassicurato il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Ma, se si leggono bene le sue parole, è una rassicurazione fino a un certo punto. E per il prossimo anno non è escluso l’ennesimo condono, per far cassa subito magari con la scusa della transizione tra un modello fiscale e l’altro. Ma in questo scenario dove si vive alla giornata, se Palazzo Chigi rivendicherà come un successo l’aver ottenuto un rinvio, sbaglierà. Perché l’immagine che si suggerisce è quella di chi ottiene un rinvio perché rinvia un programma irrealizzabile. Si tratta di problemi spostati ma non risolti. Non si comunica l’immagine di chi sta programmando un futuro di cambiamento. Roma è debole a Bruxelles, ha sprecato le occasioni contingenti che le avrebbero ritagliato un ruolo, e ora vive con ansia anche un’altra eventualità, e cioè la nomina del falco tedesco Jens Weidmann alla guida della Bce al posto di Mario Draghi. Questo sarà un problema più serio del braccio di ferro con la Commissione europea, dove di fatto Bruxelles non vuole mettere a terra il suo avversario. Se Weidmann dovesse decidere di non seguire più la politica di acquisto titoli di Draghi, ma si confermasse “falco” (fatto che però non è scontato) l’Italia rischierebbe di perdere ancora terreno verso le economie più sane in Europa. Con la necessità di nuove misure drammatiche, magari imposte da un governo tecnico o di salute pubblica. L’olio di ricino dopo le illusioni.

Fabio Morabito

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