La bussola Europa

di Fabio Morabito

Quello che è necessario per l’Italia, più necessario che urgente ma anche urgente, è una risposta. Al Paese, all’Europa. Una risposta al piano per l’utilizzo dei fondi europei straordinari che verranno erogati nei prossimi anni. La cifra di 209 miliardi – che non è neanche il totale delle risorse concesse all’Italia, ma solo quelle riconducibili al Next Generation Ue – dà il senso della gravità di quanto sta ancora succedendo, perché l’emergenza iniziata un anno fa è tutt’altro che finita. Ma dà anche il senso di un’occasione irripetibile. Lo dicono tutti, e la metafora più usata è quella del treno che non si può perdere. Eppure, dal treno si scende e si sale in questi giorni di teatro di crisi politica, incomprensibile per l’Europa, indigesta agli italiani, ma che potrebbe trovare una ragion d’essere se l’approdo sarà capace e autorevole. L’unico fantasma che sembra proprio tale è quello del voto anticipato. C’è chi lo chiede per quasi obbligo politico – come avviene dall’opposizione – c’è chi lo evoca come opzione nel prendere o lasciare – i due principali alleati di governo, Cinque Stelle e Pd.

Ma non si andrà ad elezioni anticipate. E non solo perché è letteralmente non igienico aggiungere un appuntamento elettorale straordinario. Ma perché non è detto che dalle urne esca la possibilità immediata di un governo. E prima ancora perché il Paese non si può permettere una campagna elettorale. E non si può permettere di sospendere o rinviare il confronto con l’Europa sul cosiddetto Recovery Plan, che dovrà essere approvato da Bruxelles, e che traccia – o almeno dovrà tracciare – le linee di come verranno utilizzate queste risorse. Quello che l’Italia chiama “il Piano nazionale di ripresa e resilienza”, è già confuso dal nome, perché la resilienza (la capacità di assorbire un trauma) viene prima della ripresa. Ma così com’è non basta e – sia pure con il pudore dell’alleato politico – il Commissario europeo per l’Economia Paolo Gentiloni (Pd) lo ha fatto chiaramente capire. C’è da lavorare ma su tracce semplici. L’ex premier Romano Prodi le ha indicate in un’agenda stringata: messa in sicurezza di scuola e sanità, snellire la burocrazia e gli appalti, riforme fiscali e tempi più rapidi nei processi. Che sono poi le richieste di Bruxelles. Alle quali, stavolta, non è imprudente affidarsi.

In Parlamento Giuseppe Conte, riferendo da Primo ministro sulla crisi politica, si è appellato alle forze “europeiste” fuori dall’esecutivo abbandonato da Italia Viva, il partito di Matteo Renzi che ha dato una spallata al governo (anche se formalmente non lo ha sfiduciato) costringendolo di fatto alle dimissioni. Un appello agli “europeisti” che non è blandire a distanza Bruxelles, ma individuare un’area tra gruppo misto, radicali e centrodestra (facendo riferimento soprattutto a Forza Italia) dove singoli o gruppi di parlamentari potevano avere interesse a salvare il governo. Governo che con l’Europa deve confrontarsi, se vuole accedere ai fondi stanziati ma non ancora concessi. Per questo soprattutto ora, voler stabilire chi è europeista e chi no è efficace come comunicazione ma improprio. I segnali anche da Lega e Fratelli d’Italia sono di riposizionamento e moderazione. C’è la consapevolezza di dipendere da Bruxelles in questa fase che – come congiuntura – è un’opportunità per Roma. C’è un’Europa che – sia pure nell’eccezionalità del momento – ha superato la vecchia politica del rigore. E se c’è un’Europa nuova c’è la necessità di un’Italia nuova. Lo scontro politico è tutto italiano e alcuni argomenti seduttivi nella propaganda (diminuire la pressione fiscale) sono appunto argomenti di propaganda. Ma c’è un segnale necessario da dare: si è europeisti tutti se l’Europa è quello che dovrebbe essere.

Quando Bruxelles imponeva, per non sforare il bilancio, misure che comprimevano lo sviluppo – che banalmente richiede investimenti – poteva essere considerata il burocrate che guarda solo alla riga finale dei conti e non a tutto il resto. Ora le cose sono cambiate, o almeno sono cambiate durante questo presente così drammatico. C’è un’emergenza che ha sospeso il perenne inseguimento ai conti in ordine, e ci sono risorse che non ci possiamo permettere di sprecare. C’è un interesse consapevole dell’Unione europea a non lasciar andare l’Italia alla deriva. L’Europa ora – non lo sarà sempre – può essere una bussola. E dover rispettare una condizionalità nell’accesso alle risorse non è una diminuzione di sovranità o un saccheggio come è avvenuto per la crisi della Grecia. Le condizioni sono diverse da allora, e l’Italia può veramente cogliere l’occasione del rilancio. O sprecarla drammaticamente. L’Europa, in questa crisi sanitaria ed economica provocata dalla pandemia, ha saputo trovare – pur con qualche ombra – un passo comune che consente di sperare per il futuro. La scelta di trattare l’acquisto dei vaccini come Unione europea è stata una decisione che va in questo senso. Ha permesso all’Italia non solo di non rincorrere in ritardo, ma addirittura – le prime settimane – di distinguersi nella campagna di vaccinazione.

Poi sono emersi nuovi e grandi problemi, come il conflitto con le case farmaceutiche accusate di non aver rispettato gli accordi. Ma possiamo immaginare, da italiani, cosa sarebbe successo se fossero state le singole Regioni a trattare l’acquisto dei vaccini.

C’è un fronte che è conflittuale rispetto ai produttori “padroni” dei vaccini, ma che è condiviso. C’è una pressione, sulle case farmaceutiche inadempienti, che non deve sostenere l’Italia da sola, alzando la voce nel disinteresse generale, ma che diventa una prerogativa dell’Europa. Che soffre insieme la crisi ma che ne vuole uscire insieme. Non ci si illuda su una solidarietà acquisita per sempre. Questo non sarà. Andrà costruita anche in futuro ma Roma deve fare subito la sua parte: che non significa una politica di tagli e sacrifici, ma di consapevolezza e di visione.

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