L’Italia per rilanciarsi prova a combattere la burocrazia: ma è un mostro

di Fabio Morabito
Burocrazia. Parola ruvida, respingente. Etimologicamente è il potere dei pubblici uffici. Nel dizionario, indica il complesso degli apparati e funzionari pubblici. Quindi non qualcosa di negativo. Semmai di necessario. Ma è come funziona (o non funziona) a far diventare questo sostantivo un problema. Anzi, il problema. Il problema di apparati che – se il loro potere è eccessivo, poco trasparente, macchinoso, pedante e quindi anti-produttivo – rendono complicato e lento ottenere un’autorizzazione, realizzare un progetto, avere un finanziamento. Ci sono le attenuanti. In un Paese come l’Italia, dove le mafie concorrono per ottenere appalti, a volte è necessario aumentare le regole. In un Paese dove c’è un’alta percezione della corruzione, più alta di quanto questo fenomeno sia realmente diffuso, blindare i percorsi aiuta a scoraggiare le scorciatoie illegali. E l’Italia nelle leggi anti-corruzione – su cui non è mancato l’impegno negli ultimi anni – può essere considerata un esempio. Ma è anche un fatto, riconosciuto da più parti, che la burocrazia nel nostro Paese sia un grande limite che frena lo sviluppo, perché impone il passo pesante di chi cammina zavorrato. “Lacci e lacciuoli” li chiamò – rinfrescando una definizione di Tommaso Campanella – l’allora Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, circa mezzo secolo fa. Anche se la burocrazia non è un’invenzione degli ultimi decenni: c’era anche nell’ultimo dopoguerra dove l’Italia riuscì lo stesso ad essere protagonista dell’economia. Gli anni del boom.
E non è vero che tutte le pretese dell’Amministrazione siano orpelli, cavilli, trappole. La valutazione d’impatto ambientale è una procedura accusata di essere il grande intoppo degli investimenti nelle infrastrutture: venti mesi per il via libera, ma poi ci sono pareri tecnici, consultazioni, e infine il parere finale del ministero dell’Ambiente, dove stazionano progetti vecchi dodici anni ma ancora in attesa di concludere l’iter. Eppure, “semplificando” si potrebbe lasciare spazio ai corsari del cemento, che rischiano di compromettere per sempre il patrimonio del paesaggio che è l’altra ricchezza (non si vive solo di Prodotto interno lordo) che rende unica l’Italia.
Non solo straordinarie bellezze naturali, ma il nostro geograficamente movimentato Paese ha un delicato equilibrio idrogeologico il cui rispetto è troppo spesso trascurato quando si fanno “grandi opere” che prevedono traumi sul territorio. Perfino in una recente controversa decisione, il Treno alta velocità (Tav) a Val di Susa, a dominare il dibattito è stata la cosiddetta analisi “costi/benefici”: dove si ragionava sull’efficacia del trasporto, sui soldi già spesi e finanziati, sugli impegni presi con l’Europa, mentre restava dietro le quinte la questione dell’ambiente compromesso. Secondo l’Ispra, ogni secondo che passa due metri quadrati di suolo vengono cementificati in Italia. La Sardegna ha approvato poche settimane fa, in piena estate, quella che è stata chiamata “la legge del cemento” e che aggira i vincoli di edificabilità sulla fascia costiera. Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa si è rivolto alla Corte costituzionale per fermare lo scempio.
Tutto ci parla di burocrazia. Il Decreto da 55 miliardi di euro per affrontare in tempi stretti l’emergenza economica conseguente alla pandemia, prima di chiamarsi Rilancio si era già chiamato decreto Aprile e poi decreto Maggio, raccontando fin dal nome un’amministrazione del rinvio, del ritardo, della rapidità annunciata e della lentezza reale. Poi la sua mole (250 articoli, 500 pagine) è il monumento all’incongruenza. E così, la (giusta) insistenza di Palazzo Chigi a sbloccare il più presto possibile le risorse europee che all’Italia sono state riservate, rischia di diventare un paradosso. Che sfiora un altro rischio: le risorse concesse saranno vincolate a procedure, obbiettivi. E, come peraltro è avvenuto spesso in passato con lo spreco di fondi e occasioni, si può ragionevolmente temere che l’Italia non riesca ad utilizzare tutto quanto sarà disponibile. Nei cento giorni di emergenza sanitaria, sono stati emanati 160 decreti. Quando il governo ha messo a punto il decreto Semplificazioni, in Commissione al Senato sono piovute circa 2.780 emendamenti. È l’opposizione che fa ostruzionismo? No, metà degli emendamenti li hanno prodotti i gruppi della maggioranza al governo.
Quella che serve, e su questo tutti o quasi sono d’accordo, è una cura dimagrante della procedura amministrativa. Parola d’ordine, appunto: semplificare. “La madre di tutte le riforme” così il Primo ministro Giuseppe Conte definisce il decreto Semplificazioni, approvato in questi giorni, e che sembra però essere un codice del provvisorio, perché alcune misure sono temporanee e altre sono ancora inadeguate. La sintesi in una parola è “deroga”. Ecco qualcuna delle decisioni prese, sull’intenzione di iter burocratici più snelli, digitalizzazione delle procedure, modifica del Codice degli appalti. Si interviene sul contenzioso, e ora sarà meno facile rinviare gli appalti perché non basterà un ricorso a bloccare tutto. Ci saranno procedure speciali per le opere considerate prioritarie. Affidamento diretto per importi inferiori a 150.000 euro. Procedure rapide e senza bando per le opere pubbliche fino alla fine del prossimo anno. Confermata la disciplina dei Commissari straordinari approntata con il cosiddetto “sblocca-cantieri” del governo precedente. Facilitazioni per l’economia verde. Attenuato l’abuso d’ufficio dell’amministratore pubblico. Tempi certi per l’avvio dei contratti, con rischio di procedura per danno erariale in caso di ritardi. L’Italia, tra i 19 Stati che in Europa hanno aderito alla moneta unica (la cosiddetta eurozona) è valutato il 18.mo come efficienza degli uffici pubblici (peggio di noi, la Grecia). Se qualcosa cambierà in questa percezione europea sulla nostra efficienza, vorrà dire che forse finalmente si è presa la strada giusta. Anche se è rimasta la tentazione di infilare nel contenitore quello che non c’entra. Sul decreto legge Semplificazioni il governo ha posto la fiducia. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il Dl l’11 settembre scorso, lasciando che però fosse chiaro quanto lo abbia urtato la forzatura di introdurre arbitrariamente – come è stato fatto – la riforma del Codice della Strada. E cosa c’entra mai? Si interviene – si è lamentato Mattarella con una lettera indirizzata al premier e ai Presidenti di Camera e Senato – “su una disciplina – la circolazione stradale – che ha immediati riflessi sulla vita quotidiana delle persone”. E cosa c’entra con le intenzioni anti-burocratiche del Decreto legge in questione? Il Quirinale ha citato una sentenza della Corte Costituzionale di appena un anno fa sulla necessaria “omogeneità di contenuto”. Invece, “Semplificazioni” è un altro contenitore, e infatti è passato dagli iniziali 65 articoli a 109. Mattarella ha fatto riferimento alla “difficile congiuntura economica e sociale”, e così, non volendo rallentare la risposta all’emergenza, ha firmato. Ma avrebbe preferito farne a meno.
Poi, naturalmente, ci sono state le pressioni di campanile per infilare, tra le opere prioritarie, quelle che sono le richieste specifiche di questo o quel partito, di questo o quell’interesse. Facile associare il potenziamento dell’aeroporto di Firenze al fiorentino Matteo Renzi, che guida il partito Italia Viva, poco premiato dai sondaggi ma di forte peso parlamentare. Ma su tante opere in agenda, come anche la Gronda, viadotto in Liguria, c’è il peso di obiezioni di carattere ambientale. Si comprende che non si voglia che fermino tutto ma ignorarle non consuma solo il suolo. Anche il futuro. Non si tratta solo di costruire opere pubbliche senza “lacci e lacciuoli”. Serve una riforma digitale nel pubblico, che sia resa più efficace ringiovanendo i ranghi della Pubblica amministrazione (come mentalità prima che come anagrafe). Una digitalizzazione forse malvista dai vecchi apparati perché comporterebbe come conseguenza anche una razionalizzazione degli organici, e dei privilegi. Ma che è facilitata dall’esperienza obbligata del “lavoro da casa” o “lavoro agile”; che ha visto la pubblica amministrazione organizzarsi fuori anche dagli uffici di sempre, ed è stata un banco di prova, nel suo bene e nel suo male. Eppure, un censimento dell’Agid (Agenzia per l’Italia digitale), ente pubblico istituito dal governo Mario Monti, segnala che il 95% degli 11mila server gestiti dall’amministrazione pubblica sono vecchi.
Hanno fatto il loro tempo, ora siamo nell’età 4.0, quella dell’industria digitale e interconnessa, e i vecchi percorsi non si possono utilizzare. Non basta riformare la burocrazia, bisognerebbe riformare i burocrati. Che sono tantissimi, una “casta” (o una corporazione) che non si autorigenera ma si protegge difendendosi dai cambiamenti. Ostacolando, obiettando, rallentando, esercitando il potere parassitario di chi trova privilegi nell’inefficienza. Ultracinquantenni mediamente dequalificati, in un Paese – l’Italia – che è all’ultimo posto nell’Unione europea sulle competenze digitali della popolazione adulta attiva. Vanno ridisegnate le “nomenclature” nelle pubbliche amministrazioni e nei ministeri, con retribuzioni pesanti che a volte corrispondono all’efficienza e alla competenza, altre volte sono l’epilogo di percorsi protetti dalla politica o dalle complicità. L’avvocato Conte sembrerebbe la scelta più adatta per guidare la semplificazione. Quando i Cinque Stelle decisero di rendere nota la loro “squadra di governo” (prima del voto alle Politiche del 2018), il “capo politico” (e candidato premier) Luigi Di Maio dichiarò di voler affidare il posto di “ministro per la Pubblica amministrazione, la Deburocratizzazione e la Meritocrazia”, proprio all’allora sconosciuto – nella politica – Giuseppe Conte. Docente universitario e legale affermato. Poi il prescelto si è trovato addirittura titolare a Palazzo Chigi. L’inaspettata – anche per lui – conseguenza della particolare chimica del patto di governo tra Cinque Stelle e Lega. E il ministro dell’anti-burocrazia non è stato nominato, e neanche quello del merito.
Ma se Conte sembrerebbe l’uomo adatto per questa impresa, non fosse altro perché era questa la sua destinazione, cosa rende complicata la rivoluzione dell’anti-burocrazia? L’intesa tra Cinque Stelle e Pd non la rende immediata. Culturalmente sono due mondi diversi: i primi diffidano, e con buone ragioni, a smontare alcune regole e controlli. Anzi, ne vorrebbero anche di più. Il Pd si dichiara più pragmatico. Il nemico è per tutti la burocrazia, ma il difficile è capire come combatterlo. Una ricetta la suggerisce Gianluca Maria Esposito, docente di Diritto amministrativo all’Università La Sapienza di Roma, in un colloquio pubblicato dal quotidiano Il Foglio. L’idea è di eliminare l’infelice Codice degli appalti del 2016 (peraltro, modificato tre volte in tre anni) sostituendolo di fatto con le direttive dell’Unione europea. “L’importante è la radicale semplificazione delle procedure di gara” avverte Esposito. Che spiega: “La corruzione è un effetto della complessità dell’attuale sistema normativo, si annida proprio laddove la burocrazia è inefficiente”. Se per aggiudicare una gara d’appalto ci vogliono anni, se c’è da aspettare una sentenza (d’appello, dopo altri anni ancora) perché c’è un ricorso sulla regolarità della gara, ecco che tutto si blocca. Quello che chiamiamo “burocrazia difensiva” e che nasce dalla ragionevole preoccupazione dei funzionari che si sentono protetti da un sistema complesso di controlli e procedimenti, perché farebbe da ombrello alle responsabilità a loro carico. Se il criterio di dolo (cioè violazione volontaria delle regole) è ben identificabile, nota l’avvocato ed ex-ministro Paola Severino in una sua riflessione pubblicata su La Repubblica, la “colpa grave”, altrettanto punita, è affidata a interpretazioni meno nette e chiare per quanto riguarda la responsabilità erariale che può essere imputata al funzionario. Il potere discrezionale poi affidato al pubblico funzionario diventa una zona ambigua, dove convivono abuso, necessità e ragionevolezza. Nell’amministrazione pubblica questo sistema di norme di controllo, come l’astrusità dei procedimenti, produce un “filtro” che di fatto non filtra, ma blocca o rallenta. La stessa Severino conviene su un punto: la semplificazione va attuata e accompagnata dalla trasparenza in tutte le fasi del procedimento, altrimenti non sarà efficace.
Solo gli appalti pubblici valgono il 15 per cento del Prodotto interno lordo. La burocrazia inquina tutto. Perfino il mare: cinque anni fa un paradiso naturale come l’Isola d’Elba fu inquinato da 56 “ecoballe” di plastica, peso una tonnellata ciascuna, destinate a un inceneritore in Bulgaria e scaricate in mare da un cargo in difficoltà. Il materiale si sfalda lentamente, contaminando le acque di una riserva naturale, definita “il santuario dei cetacei”, con morìa di pesci e altre conseguenze drammatiche. Conseguenze che fanno correttamente parlare di disastro ambientale. Il colpevole, un comandante turco alla guida di un’imbarcazione battente bandiera Isole Cook (paradiso fiscale distante 17mila km dall’Elba) e diretta appunto in Bulgaria, non solo non ha denunciato l’accaduto alla capitaneria ma ha completato indisturbato il suo viaggio. Non sarà mai rintracciato. Ci sono voluti quattro anni per nominare un commissario per ripulire i fondali, ma poi questo viene bloccato (motivo: conflitto d’interessi) perché è anche responsabile della Capitaneria di Porto. Poi ci sono i ritardi dovuti al lockdown, e l’incarico intanto scade. E la plastica – destinata a essere bruciata in Bulgaria – si disfa nel Tirreno.
Anche l’emergenza si affronta con lentezza, e questo è un controsenso. I 25 mila euro alle piccole imprese è stato uno dei provvedimenti più strategici per l’economia italiana in emergenza sanitaria. Fa riferimento a un settore più vivace di quanto appaia, e che trova la sua forza proprio nella frammentazione in tante realtà. Ma ci sono più di dieci adempimenti per ottenere il finanziamento, mentre in Germania l’accredito in conto corrente avviene nel giro di pochi giorni. Secondo un sondaggio di Confprofessioni sulla liquidità alle piccole imprese per l’accesso ai prestiti inferiori a 25mila euro, coperti al 100% dalla garanzia dello Stato, nel 90% dei casi le banche avrebbero chiesto documenti non previsti, insistendo nel provare a legare la concessione del credito alla sottoscrizione di una polizza assicurativa. Al di là degli studi di settore, è opinione diffusa che dalle banche ci sia una richiesta eccessiva di garanzie. Risultato: rallentamento. E ci si chiede dove – se non nella zona grigia dei favori – siano stati raccolti i crediti deteriorati che affondano i bilanci.
Ci vorrebbero interventi che riformano non solo la pubblica amministrazione ma anche gli altri settori – come la giustizia – che hanno inevitabili riflessi sul quadro economico generale. Il Forum Ambrosetti, che si svolge ogni anno a Cernobbio, ha prodotto quest’estate una ricerca su quanto pesano in Italia i cronici ritardi della giustizia civile: siamo in Europa il Paese con il maggior numero di cause pendenti tra civili e commerciali, quasi due volte e mezza la media europea. Se la nostra giustizia marciasse al passo della Germania (o della Francia) ci sarebbero più investimenti. Chi investe sapendo di dover mettere in conto lunghi contenziosi finisce con l’indirizzare i suoi capitali altrove. Dura in media circa 1.200 giorni una causa civile portata fino in Cassazione. In media, comprese quelle “rapide”. Alla fine, secondo questo report (che suggerisce procedure più snelle e digitalizzate) i ritardi di questo settore pesano 40 miliardi di maggior costo l’anno, due punti e mezzo del Prodotto interno lordo (Pil). L’economista Carlo Cottarelli, che dirige l’Osservatorio dell’Università Cattolica, e ha lavorato al Fondo monetario internazionale, ha proposto un dossier con 91 diverse proposte, anche apparentemente minimali, come l’abolizione di alcune piccole tasse (come quella sui funghi), taglio della modulistica, verifiche preventive anti-blocco dei cantieri, digitalizzazione dei 66 documenti diversi che andrebbero conservati – e all’occorrenza esibiti – in ogni cantiere edile.
La parola d’ordine dovrebbe essere “efficienza”. E qualche volta, dove non siamo bravi, servirebbe cercare di capire come funzionano le cose nei Paesi che non sono gravati dal fardello di una normativa esasperata. È normale essere in ritardo quando non ci si muove. E non basta a consolarci che anche l’imperatore Giustiniano e il suo “specialista” Triboniano dovettero combattere (e anche perdere) con la burocrazia.
Fabio Morabito

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