Perché paghiamo all’Ue più contributi di quanti ne riceviamo


di Giorgio De Rossi

E’ noto che il nostro Paese versi per il Budget dell’Ue più risorse di quante poi ce ne vengano accreditate per i diversi programmi finanziati dall’Europa. Nel chiederci se veramente siamo diventati un popolo di spendaccioni, cercheremo di approfondire le motivazioni di tale apparente paradosso. La risposta, variegata e complessa, l’abbiamo ricavata dalla documentazione della Corte dei Conti e del Ministero dell’Economia e Finanze, nonché dalle stesse fonti europee. Nella Relazione Annuale 2019, infatti, il massimo Organo di Controllo Contabile, riferendo al Parlamento anche sull’utilizzo dei Fondi europei, ha analizzato i flussi finanziari tra l’Italia e l’UE nel settennio 2012-2018. In particolare, come evidenziato nella Tabella 1, l’Italia, nel 2018, ha versato all’UE, a titolo di “Risorse Proprie”, la somma complessiva di € 17 miliardi, che risulta il secondo valore più elevato del periodo considerato e con il maggiore scostamento sull’esercizio precedente (+ € 3,2 miliardi, pari al 23,1% rispetto al 2017). Le Risorse Proprie rappresentano dunque la principale fonte di entrata per il Bilancio dell’UE e derivano principalmente:
● dai dazi doganali e dalle quote sullo zucchero;
● dall’imposta sul valore aggiunto (IVA);
● dal Reddito Nazionale Lordo (RNL) che, nel settennio 2012-2020, ha rappresentato
l’introito di maggior peso; nel 2018 detta entrata ha raggiunto l’ammontare € 11,9 miliardi (+ € 3,1 miliardi rispetto al 2017, pari al 35%), seguita dalla risorsa “IVA”, pari ad € 2,3 miliardi.

Nel periodo in esame, l’ammontare delle “Risorse Proprie” trasferite al Bilancio dell’Unione è risultato, pertanto, pari a complessivi € 112,8 miliardi. Passando agli accrediti effettuati dall’UE all’Italia, per Rubriche di spesa, nel 2018 l’Unione ci ha accreditato l’importo di € 10,1 miliardi, come si evince dalla Tabella 2, che considera il medesimo arco temporale 2012/2018. La Rubrica “Risorse naturali”, con € 5 miliardi, è stata la più rilevante in valore assoluto risultando pressoché pari al 50% delle restanti Rubriche di spesa. La successiva Tabella 3, mostra come la differenza tra i nostri versamenti al Bilancio UE e gli accrediti dall’ Unione europea all’Italia abbia determinato ogni anno, un “saldo netto negativo”. Nell’esercizio 2018 esso ha toccato il picco con un ammontare pari a – € 6,9 miliardi, valore sensibilmente più elevato di quello registrato nel 2017 (- € 4,3 miliardi), così come avvenuto anche negli anni precedenti.
ll valore cumulato dei “saldi netti” per il nostro Paese, nel settennio 2012-2018, è risultato dunque negativo per ben – € 36,3 miliardi. In tale periodo, recita la Relazione della Corte, “l’Italia ha contribuito alle finanze dell’Europa con un saldo medio di 5,2 miliardi l’anno, collocandosi al quarto posto tra i maggiori contributori netti, dopo Germania, Francia e Regno Unito”. Occorre comunque considerare che il contributo netto è un saldo, sul quale pesano non solo le risorse “cedute” all’Europa, ma anche le risorse ricevute dai bilanci nazionali. “Con riferimento a queste ultime” – prosegue la Relazione della Corte dei Conti – “va detto che la dinamica degli accrediti dipende anche dalla capacità progettuale e gestionale degli operatori nazionali, nonché dall’andamento del ciclo di programmazione: quindi il saldo negativo non è di per sé espressione di un trattamento deteriore per l’Italia rispetto a quello di Paesi che si suppongono più avvantaggiati”. In altri termini, l’Organo Contabile ci avverte dell’esigenza di migliorare la nostra operatività – programmatoria, gestionale, contabile e, come appresso vedremo, anche giuridica – fondamentale per non incorrere nella restituzione di somme rimaste inutilizzate a fine programmazione: ciò ci eviterà di pensare all’esistenza di ipotetiche discriminazioni tra gli Stati aderenti all’Unione europea. L’osservazione della Corte è quanto più appropriata ove la collegassimo all’impatto finanziario del contenzioso tra l’UE e l’Italia.
Infatti, alcuni procedimenti giudiziari avviati nei nostri confronti per il mancato rispetto del diritto europeo, hanno già prodotto, e, se non vi si pone sollecito rimedio, produrranno, in un prossimo futuro, pesanti riflessi finanziari sul Bilancio nazionale.

Al 31 dicembre 2018 avevamo collezionato ben 70 procedure pendenti di infrazione attive (+ 8 rispetto al 2017), di cui 9 per ritardato recepimento di Direttive, 39 per recepimenti non corretti e 22 per violazione di Regolamenti, Trattati e Decisioni. A fronte di una sentenza di condanna emanata dalla Corte di Giustizia Europea, non sempre gli Stati membri ottemperano in modo tempestivo; per cui, mentre le prime sentenze di condanna non prevedono l’irrogazione di sanzioni a carico dello Stato soccombente, nel caso in cui si pervenga ad una seconda condanna, sono previste pesanti sanzioni pecuniarie: sanzioni che prevedono, oltre al versamento immediato di una somma forfettaria, anche la corresponsione di penalità annue periodiche fino alla piena conformazione della prima sentenza della Corte. Nel nostro Paese, fino a tutto il 2018, abbiamo subìto cinque “seconde condanne”, di cui tre relative al settore ambientale e due per aiuti di Stato. La Tabella 4 espone i pagamenti per sanzioni forfettarie e periodiche a carico del nostro Bilancio dello Stato ed evidenzia che le seconde condanne hanno già dato luogo ad un esborso pari ad € 655 milioni. Poiché è appena il caso di sottolineare che le sanzioni periodiche “corrono” fintantoché non sarà data piena esecuzione al giudicato, è auspicabile che si ponga al più presto un freno a tale emorragia finanziaria, atteso che gli inadempimenti possono comportare esborsi di ammontare indefinito e provocare criticità con conseguenze anche molto gravi per la nostra finanza pubblica.

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