Polvere di 5 stelle, crisi d’identità

di Fabio Morabito

La parabola elettorale dei Cinque Stelle, vincitori delle elezioni politiche del 2018, primo gruppo rappresentato in Camera e Senato e alle ultime regionali ridotti molto sotto la doppia cifra nei consensi, ha un effetto collaterale che probabilmente ha reso euforico il segretario del Pd Nicola Zingaretti dopo il voto delle regionali in Emilia Romagna e Calabria. L’effetto è quello di rendere forti gli alleati di governo. È successo con la Lega, in modo clamoroso. Anche se a dirla tutta Matteo Salvini esplose nei sondaggi già subito dopo il voto alle Politiche, gestendo molto bene la fase preliminare al primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte. La Lega poi è passata da successo in successo, mentre contemporaneamente i Cinque Stelle perdevano consensi. Eppure se si fa un’analisi delle cose fatte dal precedente governo, sono molto di più quelle riconducibili ai “grillini” che ai leghisti, dal decreto dignità al reddito di cittadinanza. Che siano buone o cattive leggi è un altro discorso, ma se i Cinque Stelle non hanno realizzato qualcosa del loro programma, come il blocco del Tav in Val di Susa, era perché non avevano i numeri in Parlamento.

Ora anche il Partito democratico, che ha preso il posto della Lega nel governo Conte 2, nonostante la scissione voluta da Matteo Renzi che ha fondato Italia viva, sembra essere tornato in salute. Al punto che c’è chi sostiene, tra i dirigenti del partito, che lo scenario politico è avviato verso un bipolarismo Lega-Pd. Sbagliando probabilmente, perché il quadro resta complesso. E a destra l’ascesa dei Fratelli d’Italia guidati da Giorgia Meloni è fino ad ora costante, e non si limiterà ad essere un alleato subalterno in un possibile esecutivo del centrodestra.

Certo che i Cinque Stelle sono in crisi. Una crisi d’identità. Luigi Di Maio ha scelto, con astuzia politica, di dimettersi da capo politico prima del risultato delle regionali, che si sapeva sarebbe stato una disfatta. Il sociologo Domenico De Masi ha commentato che avrebbe dovuto dimettersi da ministro degli Esteri, dove non ha nessuna esperienza da far valere, e non da capo politico. Ma Di Maio non aveva nessuna voglia di farsi lapidare dai risultati delle regionali, in cui il Movimento aveva fatto la scelta di presentarsi con propri candidati sulla base di un sondaggio tra gli iscritti.

Il cumulo delle cariche in effetti sembra suggerire un eccesso di presunzione del giovane leader, ma anche Zingaretti è presidente della Regione Lazio e segretario del Pd insieme. Ora il testimone della guida del Movimento è passato per anzianità tra i dirigenti al senatore Vito Crimi, ma si andrà probabilmente verso una soluzione più articolata. I Cinque Stelle devono rifondarsi anche nella comunicazione, che è stato il loro punto di forza quando erano all’opposizione.

Quando il Movimento ideato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, da espressione di protesta è diventato forza di governo, inevitabilmente si è esposto al logoramento di una serie di scelte di campo e alla prova dei compromessi. Ma questo è stato un passaggio fisiologico. Il peso reale del Movimento non era quello di un voto su tre delle ultime elezioni politiche. Ma più che la ricerca del consenso è stata soprattutto la paura di perderlo a diventare una trappola.

Non era riuscita bene la scommessa di alleanza in Umbria, quando i partiti di governo hanno condiviso il sostegno a Vincenzo Bianconi, poi sconfitto dalla candidata del centrodestra Donatella Tesei. Questo ha fatto credere che l’abbraccio con il Pd sarebbe stato mortale, mentre il sostegno al modenese Stefano Bonaccini, presidente uscente dell’Emilia Romagna e poi confermato con il voto del 26 gennaio scorso, avrebbe trovato una giustificazione forte nei buoni risultati che per opinione diffusa venivano riconosciuti al governo della Regione. Mentre Matteo Salvini, volutamente o no, ha suggerito un messaggio diverso nel sostenere la candidata del centrodestra, la senatrice della Lega Lucia Borgonzoni: vinciamo in Emilia Romagna per far cadere il governo, che è un’altra cosa rispetto all’amministrazione della regione.

In Emilia Romagna il candidato “pentastellato” si è fermato al 4,7%; quello in Calabria al 6,2%, con 48mila preferenze. Meno delle richieste calabresi di accedere al reddito di cittadinanza (62mila). Ma il malessere vero nei Cinque Stelle e di non sapere unire le diverse sensibilità di quello che ormai è un partito (anche se è un definizione che i suoi militanti sentono estranea). Il passaggio di deputati o senatori al gruppo misto è continuo. Ormai è pubblica la divisione in correnti, gruppi di aggregazione o energie di disgregazione. Tutto questo quando la classe dirigente espressa ha dato qualche sorpresa ma anche gravi inadeguatezze. Non si potrà continuare ad accarezzare l’equivoco di non essere né di destra né di sinistra. Schemi un po’ logori, è vero: ma al Parlamento europeo i Cinque stelle hanno sempre votato come la sinistra. La strada per non sparire sarà trovare un’identità diversa dalla protesta delle origini, ma che dei valori delle origini – a cominciare dalla difesa dell’ambiente e del bene pubblico – sappia recuperare il tracciato.

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