Erdogan i curdi e le colpe dell’Europa

Non è un vero e proprio silenzio, quello dell’Europa sull’invasione della Turchia in Siria per combattere i soldati curdi. Ma è peggio. Poche dichiarazioni, sparse, di non fornire più armi ad Ankara. Ma “fatti salvi i contratti in essere”. Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, lui sì che ha alzato la voce contro l’Europa, minacciando di liberare i milioni di rifugiati siriani trattenuti illegalmente in campi profughi finanziati vergognosamente dalla stessa Unione. Un contratto miliardario che Bruxelles ha firmato con Ankara per non fare superare l’ultimo confine ai siriani in fuga dalla guerra civile, quindi tutti titolari legittimi per le leggi internazionali del diritto di asilo politico.

I curdi sono stati alleati delle ragioni dell’Occidente nella lotta contro i terroristi islamici dell’Isis. Hanno combattuto con coraggio, sul campo, e sono stati abbandonati. È stato il cinico presidente degli Stati Uniti Donald Trump ad annunciarlo ad Erdogan già a settembre. Ha richiamato le prime decine di soldati dalla linea di confine nella notte di domenica 6 ottobre, e questo è stato con tutta probabilità un concordato via libera al presidente-dittatore turco.

Erdogan ha dichiarato di voler allontanare dal confine i miliziani dell’Ypg, le unità combattenti di protezione popolare curde, che sostiene essere terroristi. È con l’Ypg che si era arruolato il fiorentino Lorenzo Orsetti, ucciso dagli jihadisti dell’Isis qualche mese fa. “Voleva liberare i curdi, siamo fieri di lui” disse il padre, affranto. Sono i combattenti che hanno constrastato e sconfitto i miliziani dello Stato islamico.

Allontanare dal confine, ma quanto? L’esercito turco è entrato in Siria e sta avanzando. Sono stati bombardati sfollati e giornalisti. È stata trucidata in un agguato Hevrin Khalaf, una delle donne-simbolo dell’indipendenza dei curdi, nota in Europa nell’etichetta anche riduttiva di “paladina dei diritti umani”.

Trump poi censurato in patria perfino dai deputati repubblicani, il suo partito ha dovuto negare che il suo fosse un’autorizzazione ad attaccare, e ha minacciato sanzioni, definite “grandi”. I turchi hanno anche bombardato una postazione americana rimasta. Ufficialmente per errore, forse per dare un segnale (non ci sono state vittime), e cioè perché il ritiro fosse immediato, definitivo e totale.

L’Unione europea, invece, per condannare il massacro di civili ha impiegato cinque giorni. Cinque giorni per una parola: “Condanna”. Cinque giorni per un nulla, per una ovvietà. Il decreto che blocca l’esportazione delle armi da parte dell’Italia è di lunedì 14 ottobre. Emced Osman, portavoce del Consiglio democratico siriano, ringrazia ma dichiara amaro: “Ankara ha già abbastanza armi per uccidere il nostro popolo”.

L’Europa fa i conti con le sue paure. La cancelliera Angela Merkel non si distingue per determinazione, forse condizionata dalla numerosa comunità turca in Germania, certamente preoccupata da una nuova ondata di profughi sulla cosiddetta “rotta balcanica”. Senza di lei, conta poco tutto il resto. L’Unione non ha una voce sola, come avrebbe bisogno di avere. Ma stavolta c’è anche meno di questo: la Turchia fa parte, insieme con le altre grandi potenze europee, dell’Alleanza atlantica. Ma nessuno e questo Roma, Parigi, Berlino lo potrebbero fare con efficacia singolarmente ha messo finora in discussione la convivenza nella Nato con un Paese aggressore. Manca all’Europa la scintilla del suo ruolo, quello di essere un soggetto di pace. Una drammatica incapacità, un inseguimento di piccoli interessi particolari che sono già una sconfitta.

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