Diritti umani, a Strasburgo vince la mafia

di Fabio Morabito

Il titolo di questo articolo è duro, provocatorio. Ma è tecnicamente corretto, e peraltro non rappresenta neanche un’opinione, ma un fatto. Per Strasburgo si intende, in questo caso, la sede della Corte dei diritti dell’Uomo (Cedu), che si è espressa l’8 ottobre sul ricorso dell’Italia, giudicandolo “inammissibile” rispetto alla sentenza di primo grado del 13 giugno scorso, con cui era già stata data ragione a Marcello Viola, ergastolano capocosca della ‘ndrangheta e pluriomicida.

La Corte è cosa diversa e autonoma dall’Unione europea, vi sono rappresentati 47 Paesi (c’è anche la Russia). Il collegio che ha esaminato il caso, nel giugno scorso, era composto da 7 magistrati, quasi tutti – in 6 – si sono dichiarati a favore di Viola, ovviamente concedendogli il rimborso delle spese legali, e solo uno ha dato ragione all’Italia. Un diverso collegio di cinque giudici invece hanno esaminato l’ammissibilità del ricorso del nostro governo, che ha chiesto che sulla questione si esprimesse la “Grande Camera”, una sorta di Cassazione della Cedu.  Rejeté. Ricorso respinto. La sentenza di giugno è così diventata definitiva. Marcello Viola, 60 anni, attualmente detenuto a Sulmona, è uno dei circa mille carcerati in Italia condannati all’ergastolo “ostativo”.

L’ergastolo è la condanna a vita, si discute se essa stessa non sia una pena troppo dura, ma anche chi è condannato può accedere – dopo aver scontato una parte importante della pena, 26 anni- a una serie di benefici di legge come i permessi premio, oppure il lavoro all’esterno e le misure alternative alla detenzione. Invece l’ergastolo “ostativo” (l’aggettivo è un rafforzativo curioso, perché già l’ergastolo è un carcere a vita) prevede che si possa uscire dal carcere solo da morti. Papa Francesco ha definito qualche anno fa l’ergastolo “una morte nascosta”. Ma l’ergastolo ostativo, introdotto dopo le stragi che nel 1992 uccisero Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini delle loro scorte, è condizionato alla decisione dell’accusato di non collaborare con la giustizia. Non è necessario che la collaborazione porti a qualche risultato, potrebbe essere anche “inutile”, ma è il requisito che è stato considerato dal legislatore dirimente sul ravvedimento del condannato per reati gravissimi.

Secondo i giudici europei, l’ergastolo ostativo – anche con questa possibilità della “collaborazione” – viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (la carta firmata dai governi del Consiglio d’Europa), che proibisce la tortura: “Nessuno – stabilisce la norma – può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. È inumano o degradante il carcere a vita? Diversi autorevoli giuristi italiani (molto autorevoli: anche tre presidenti emeriti della Corte Costituzionale, Valerio Onida, Giovanni Maria Flick, Gaetano Silvestri) condividono la linea di Strasburgo. L’ergastolo ostativo sarebbe – per questa linea di pensiero – anche in contrasto con l’articolo 27 della nostra Carta, nella parte in cui stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“. In quel “devono tendere” c’è l’obbligo assoluto che la pena sia rieducativa? E questo comporta il reinserimento nella società, qualunque sia il delitto che sia stato commesso? La pena detentiva non è per sua natura una punizione etica, ma prima di tutto un deterrente a comportamenti socialmente gravi. La pena deve intimorire, scoraggiare. La funzione rieducativa non è di conseguenza un atteggiamento paternalistico, ma l’attenzione del diritto a un possibile recupero sociale di chi si è macchiato di un crimine e si vuole – prima di tutto – che non rappresenti più una minaccia alla convivenza civile.

Il senso della funzione della pena è uno degli argomenti della motivazione dell’unico magistrato della Cedu che si è espresso respingendo la richiesta dei legali di Viola, e accogliendo la legittimità della posizione italiana. È il giurista polacco Krzysztof Wojtyczek che ha chiesto di allegare le sue articolate considerazioni alla sentenza. Wojtyczek sostiene che non basta che ci sia un ravvedimento del condannato; la detenzione è necessaria – spiega – per dissuadere altri potenziali criminali a commettere reati simili e anche per dare un sentimento di giustizia alle famiglie delle vittime. Quest’ultimo è un argomento inevitabilmente controverso. I sentimenti dei familiari delle vittime – qualunque essi siano, perché c’è anche chi, magari per convinzioni religiose, perdona subito – possono influenzare le decisioni del diritto? La sofferenza di mogli, figli, genitori, si esprime facilmente nel “fine pena mai è il nostro”. Il maresciallo dei carabinieri Stefano Piantadosi fu ucciso da un ergastolano in permesso premio. Un errore del magistrato di sorveglianza non può compromettere un tentativo virtuoso di recupero, ma il rispetto del dolore degli innocenti aiuta a capire che la clemenza potrebbe essere una cosa diversa dalla giustizia. A difendere la norma che ha introdotto l’ergastolo ostativo sono i magistrati che hanno ricoperto o ricoprono ruoli nell’antimafia come Pietro Grasso, Gian Carlo Caselli, Nino di Matteo, Federico Cafiero De Raho, Sebastiano Ardita e Luca Tescaroli. L’unica paura dei mafiosi

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