Tutto il male che ci ha fatto l’euro

I vent’anni della moneta unica e i ritardi della nostra economia


di Antonella Blanc
Vent’anni, beata gioventù. L’euro ha appena compiuto vent’anni; il dollaro il suo riconosciuto avversario nel mercato dei cambi ne farà 234 a luglio. Ma la moneta comune che in Italia ha preso il posto della lira (fisicamente non subito, il 28 febbraio del 2002 c’è stata l’uscita di scena, e sono passati giusto ora 17 anni) non gode di grande popolarità. All’euro, in Italia, vengono imputati aumento dei costi e non adeguata rivalutazione dei salari; anche se una retorica politica diffusa ha sempre glorificato gli artefici e registi, da Carlo Azeglio Ciampi in poi, del nostro ingresso nella cosiddetta “eurozona”, cioè i Paesi dell’Unione europea che hanno adottato la moneta comune. Non tutti (19 su 28, gli ultimi ingressi sono Lettonia e Lituania), e la prima e più vistosa eccezione è stata la Gran Bretagna, che si è tenuta stretta la sua sterlina. E questo le rende meno indigesta la già difficile e complicata Brexit.

C’è retorica, e controversia, sul fatto se sia stato un bene o no per l’Italia entrare nel club di chi ha rinunciato alla valuta nazionale. Ma retorica è stata certo anche la diffidenza verso l’ingresso dell’euro, percepito 17 anni fa ma reale da due decenni pieni. Perché se ancora circolava la lira, i cambi erano bloccati e si ragionava già in euro con il doppio prezzo anche nei cedolini degli stipendi appunto dal 1 gennaio del 1999. E la crisi petrolifera dopo l’attentato dell’11 settembre del 2001 alle Torri gemelle, brutalizzando i mercati ha reso ancora meno popolare il passaggio alla nuova moneta a cui venivano inconsciamente imputate le conseguenze di un’economia stressata. Si discute ancora oggi sul fatto che l’Italia pagò troppo il cambio tra lira ed euro. Ma fu individuato un criterio comune, e cioè la media del cambio negli ultimi tre anni in ciascun Paese della neonata eurozona.

All’inizio si sono imbarcate nell’avventura undici Paesi (l’Italia da subito, come abbiamo visto), e nessuno ha provato ad uscirne, anche perché questo è più che complicato. Una teoria (il “piano B” di uscita dall’euro) di Paolo Savona, è costata la poltrona di ministro dell’Economia a quest’ultimo, per la volontà del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, preoccupato che non venissero dati segnali pericolosi a Bruxelles (e ai mercati). Savona però aveva probabilmente fatto solo un esercizio accademico, perché è opinione diffusa che l’uscita dalla moneta unica sarebbe un salto nel buio. E Savona peraltro precisò che chi vuole mettere in atto un piano di fuga avrà l’accortezza di non parlarne prima, per non provocare un allarme preventivo.

Ora uno studio internazionale (dal titolo: Venti anni di Euro, vincitori e vinti) firmato da un istituto di analisi tedesco, il Cep (Centrum für Europäische Politik) di Friburgo, ha pubblicato un report molto dettagliato su vincitori e vinti a vent’anni dalla sua istituzione della moneta. E quello che ne scaturisce è che ci sarebbero solo due Paesi ad aver tratto profitto dalla moneta unica: Germania e Olanda. E se a dirlo è un centro studi tedesco dà maggior clamore ai risultati suggeriti.

Il Cep prova a fare un bilancio dopo un ventennio dall’introduzione della moneta unica, con l’obiettivo di indicare chi ci ha guadagnato e chi ci ha perso. E non stupirà nessuno che le conclusioni sono state: ci ha guadagnato la Germania, ci ha perso l’Italia. Che è la fotografia esatta di un istintivo senso comune, stavolta però certificato da analisti (anche se, va detto, i metodi di analisi sono empirici e possono essere faziosi). Quello che rasenta l’incredibile sono le cifre e le proporzioni di questa disuguaglianza. Secondo questo studio, il problema che ha affossato l’Italia in particolare (ma non solo) è l’impossibilità di “svalutare la propria valuta per rimanere competitivi a livello internazionale”.

L’impossibilità di svalutare è diventata difficile competitività sui mercati, fatto che di conseguenza ha portato commentano gli analisti del Cep “a una minore crescita economica a un aumento della disoccupazione, al calo delle entrate fiscali”. Ma ecco le cifre, difficili da credere, indicate da questo report. La Germania, dal 1999 al 2017 avrebbe guadagnato complessivamente 1.893 miliardi di euro, pari a circa 23.116 euro per abitante. Dopo la Germania, l’Olanda avrebbe tratto grande profitto dalla moneta unica, guadagnando circa 346 miliardi, e cioè 21mila euro pro capite. Dall’altra parte dell’Europa, in questa classifica di vincitori e vinti, l’Italia tra i nove Paesi esaminati è lo Stato che avrebbe sofferto di più l’eurozona: 73.605 euro pro capite, una perdita di 4.300 miliardi, qualcosa di stellare considerando che il nostro debito pubblico, già fuori controllo, è di “soli” 2.300 miliardi. In Francia, le perdite dal franco all’euro sarebbero di circa 3.591 miliardi, ovvero 56mila euro circa ad abitante.

Il risultato della Germania, poi, risulterebbe ancora più clamoroso considerando che il gigante tedesco non si è messo in moto subito, ma dopo il 2005. Un altro luogo comune, infatti, è che l’euro sia stato fatto su misura di Berlino. Invece già prima della moneta unica era il marco tedesco a dettare legge tra le valute europee, che ne seguivano i movimenti con sudditanza. Anzi, si potrebbe dire che l’euro sarebbe stato concepito proprio in funzione anti-marco, e che è stata poi l’economia tedesca a conformarsi con teutonica efficienza alla nuova realtà.

Senza l’euro, secondo i calcoli del report di Friburgo, il pil (prodotto interno lordo, l’indicatore economico che con i suoi spostamenti indica la salute economica di un Paese) dell’Italia sarebbe stato di 530 miliardi più ricco (o anzi, meglio: meno povero). Non convince per nulla la metodologia della ricerca, che confronta i Paesi con altri fuori dall’Eurozona, e calcolando tutto con algoritmi forse un po’ artificiali. Il metodo usato (definito di “controllo sintetico”) vede l’Italia messa a confronto con altri Paesi fuori dall’Eurozona, come Gran Bretagna, Giappone, Australia e Israele che negli anni precedenti al test avevano avuto performance economiche analoghe. E naturalmente le proporzioni di quanto sarebbe stata penalizzata l’Italia fa sembrare questo studio più una provocazione che uno scenario reale. Scrivono nelle loro conclusioni gli analisti del report: “L’Italia non ha ancora trovato un modo per diventare competitiva all’interno dell’eurozona. Nei decenni prima dell’introduzione dell’euro, l’Italia svalutava regolarmente la propria valuta con questo scopo. Dopo l’avvento dell’euro non è stato più possibile. Invece, erano necessarie riforme strutturali. La Spagna mostra come le riforme strutturali possono invertire la tendenza negativa”. Queste però sono considerazioni, nella loro ovvietà, condivise da tutto l’apparato di Bruxelles, e da legioni di economisti.

Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea (verso la fine di quest’anno dovrà lasciare per conclusione del mandato) ha invece celebrato il ventennale dell’euro con parole definitive e rassicuranti: “L’euro è la rappresentazione più tangibile dell’integrazione europea che i nostri cittadini incontrano quotidianamente ha detto infatti -. Garantire prosperità economica e stabilità a lungo termine è una sfida condivisa che è meglio affrontare collettivamente. Siamo più forti insieme”. E ha ricordato che la moneta unica “ha prodotto due decenni di stabilità dei prezzi”, favorendo “la fiducia delle persone nel valore dei loro risparmi, che è una delle condizioni per la prosperità. Sulla base di tale fiducia, le imprese investono e creano nuovi posti di lavoro”. Più prosperità, proprio il contrario dell’algoritmo di Friburgo.

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